Alla scoperta dei Listening Bar dove incontrare audiofili o solitari in meditazione

Dopo un iniziale articolo comune, tra oriente e occidente, resici conto del grandissimo volume di informazioni che necessitava l’originaria cultura orientale in materia di “Jazz bar”, siamo arrivati alla conclusione della necessità di divisione di questi locali nelle due aree culturali dell’emisfero boreale, per dare una dovuta rappresentazione della declinazione che se ne da a oriente, maggiormente meditativa, e quella che se ne da a occidente, sempre con un maggior occhio al bilancio qualità/business, quando in Giappone il bilancio è completamente spostato sul primo elemento del rapporto, con le conseguenti frequenti chiusure negli ultimi anni.

Quello di cui parliamo qui non è il classico Jazz club con musica dal vivo, genere di locali già diffusa in tutta Europa da decenni e perciò ormai inutile da descrivere in queste pagine.

Qui facciamo riferimento a un locale pubblico in cui si possa a tutte le ore, per clienti molto diversi, poter fruire di un archivio quanto più sconfinato possibile, la collezione musicale del proprietario, suonata attraverso l’elemento che fa filtro su cos’è o non è un Listening Bar, ovvero un impianto High-End normalmente da decine di migliaia di euro. Qui il principale discrimine assieme ai numeri della collezione di vinili, che dovrebbero stare oltre ai tre zeri. Un impianto per un locale di questo genere deve avere dei tratti quasi normativi: altoparlanti da studio, possibilmente di grosse dimensioni, fatti muovere da possenti unità di amplificazione, meglio se valvolare, cui si invii un segnale da una sorgente necessariamente analogica, e qui abbiamo fatto già il cenno al paradosso nell’articolo dedicato ai Jazz Kissa: che in occidente, strizzando l’occhio al pubblico delle discoteche si fa uso pressoché sistematico dei Technics 1200, mentre in Giappone, patria di questi piatti, si usano esclusivamente vecchi giradischi europei, primi tra tutti Garrard, Thorens ed EMT (su questo argomento delle sorgenti analogiche magari prossimamente ci soffermeremo). Se in Giappone come fonti sonore si usano i classici da studio musicale (JBL, Altec Lansing, Tannoy…) già menzionati nell’altro articolo dedicato agli omologhi orientali, in Europa sta andando in uso, con la consueta esagerazione, rivolgersi a costruttori di amplificatori e altoparlanti per discoteca, magari dei migliori, ma ci rendiamo conto che si pone in atto quell’eccesso già introdotto all’epoca delle discoteche dove non si sa, o non si tiene conto che la pressione sonora misurata in decibel, è funzione logaritmica della potenza elettrica utilizzata, e che al passare da 30W per canale (più che sufficienti, specialmente se in uscita da un bel valvolare ad alta corrente) a 300, o peggio a 3000, non si ha, per fortuna peraltro, un equivalente aumento della pressione sonora, ma strumenti alla mano si potrebbe apprezzare l’aumento in decibel in termini di qualche unità. Per fortuna dicevamo sopra, perchè all’aumentare anche di poco di quest’ultimo parametro possiamo andare facilmente in area dannosa per l’udito, senza alcun beneficio peraltro nella fruizione musicale.

Con tutte le dovute differenze, il listening bar è prima di tutto anche da noi un locale in cui la musica viene ascoltata come forma d’arte. Dovrebbe essere un posto dove le persone possono rilassarsi e concentrarsi sulla musica, senza le distrazioni tipiche di un bar o di un locale notturno, anche se i più noti stanno prendendo la piega di essere una sintesi tra un ristorante e un dancefloor. La musica viene solitamente selezionata da un DJ o da un curatore musicale, e viene suonata attraverso un sistema audio di alta qualità. In occidente ha talvolta preso piede la consuetudine che l’esperienza musicale possa essere fruita anche ballando nel locale, se quello che viene suonato è un dj-set elettronico. Ma man mano che si diffonderanno queste situazioni possiamo confidare che aumenti la cultura nella tradizione del Jazz Kissa giapponese e si cerchi di trarre maggiore ispirazione dall’atmosfera intima tipica degli equivalenti orientali.

Tra i generi prevalenti anche in occidente vi è sicuramente il jazz, ma da noi un buon locale da ascolto inserisce tutte le branche non commerciali di musica contemporanea dove si possa offrire alla propria clientela degli ascolti non comuni e dove sia possibile percepire un alto livello di ricerca nello stile e nell’esecuzione: fusion, IDM, balearic, eclectic, freeform, etc… Perciò non deve stupire se alle pareti di un locale del genere si possano trovare appese copertine della leggenda del jazz Sonny Rollins accanto a quelle della leggenda dell’hard core Henry Rollins, o se a fianco a un ritratto della delicata cantautrice newyorkese Suzanne Vega, dovessimo trovare una posa provocatoria del tracotante protagonista della no-wave newyorkese Alan Vega, in una specie di ritratto di famiglia un filo surreale.

In termini di locali di punta del settore, ecco alcuni nomi che fanno tendenza in tutto il mondo:

Bonobo – Tokyo, Giappone: Questo listening bar di Tokyo è uno dei più famosi al mondo ed è noto per la sua selezione musicale di alta qualità. La musica viene selezionata da un team di DJ esperti e viene suonata attraverso un sistema di altoparlanti di alta qualità.

Brilliant Corners – Londra, Regno Unito: Questo listening bar di Londra è noto per la sua vasta collezione di vinili e per la sua attenzione alla qualità del suono. Per il raggiungimento di questa si utilizzano piatti Technics connessi al resto dall’impianto da mixer particolari e come trasduttori i classicissimi monitor “Arden” 15″, quelli che si dice (ma la Tannoy lo dimostrerebbe nel proprio sito, attraverso foto dell’epoca) fossero in utilizzo agli studi di Abbey Road ancora ai tempi dei Beatles e Pink Floyd.

Black Flamingo – Brooklyn, New York: Questo listening bar di Brooklyn è noto per la sua musica disco e house, suonata da DJ di fama internazionale. Il locale dispone di un sistema di altoparlanti di alta qualità e di un’atmosfera intima.

Bar Shiru – Oakland, California: Questo listening bar di Oakland è noto per la sua selezione di jazz e musica soul, suonata da DJ locali. Il locale offre anche una vasta selezione di vini e cocktail.

Iniziate dal secondo 50 se volete vedere immediatamente le immagini del locale

Spiritland – Londra, Regno Unito: Il locale offre cibo e bevande di alta qualità e ospita regolarmente eventi musicali dal vivo. Oltre ad essere un Listening Bar, Spiritland è anche un negozio di HI-FI, specializzato in cuffie e uno studio di registrazione. Un locale che vorremmo anche da noi.

Comprendiamo anche che il Lucky Cloud Sound System, locale che eredita la tradizione dell’idea di Sound System appartenuta alla leggenda del dancefloor David Mancuso, il quale era noto oltre che per la particolare tecnica di mixaggio (o forse di “non missaggio”) dove i pezzi vengono proposti per intero e con una breve pausa tra l’uno e l’altro, per aver impostato ai tempi del Loft un impianto hi-fi mai visto prima, e successivamente nelle sue ospitate internazionali, per presentarsi con una coppia di Linn Sondek dove si recava a suonare. In questo luogo si tengono dei party dove certamente si balla, ma si ascolta tra audiofili e appassionati – in un senso più ampio di quello attribuito a un dj-set dai soliti punter da discoteca – una selezione musicale piuttosto esclusiva.

Una menzione a parte va fatta per un Listening Bar Molto interessante: si tratta del Frissòn Roma – di Luca Quartarone, brillante titolare che dobbiamo ringraziare innanzitutto per essersi incaricato rispetto all’editore giapponese di distribuire in Italia i tre volumi del libro fotografico “Jazz Kissa” del duo giapponese Katsumasa Kusunose e Irene Yamaguchi, missione a noi molto gradita in quanto ne abbiamo acquistati due su tre da lui (mentre il primo abbiamo avuto la fortuna di reperirlo dal negozio inglese “Rare Mags“). Ma a parte questo dettaglio personalistico, va raccontato qualcosa di questo interessante locale, anch’esso in effetti piuttosto debordante da quelli che sono i comuni confini di un Jazz Cafè, ma in un verso a nostro parere in questo caso virtuoso: Quartarone ha inteso il locale come un ambiente interattivo e multidisciplinare, luogo interessante dal punto di vista musicale, ma anche sede per installazioni multimediali, e lavori inerenti alle arti visive. Il locale è talmente intriso di questi ultimi aspetti da somigliare a nostro avviso al bar della Biennale di Venezia, coi suoi colori sgargianti. Questo in virtù della partnership che è nata in questo progetto dal nostro Quartarone con Mario Ansalone, da anni gallerista a livello europeo.

Un’immagine del Listening Bar Frissòn di Roma.

Sitografia:

Articolo dal sito americano “Eaters”

I cinque migliori Listening Bar inglesi secondo il blog di Discogs

Il sito dell’eccellente Listening Bar francese Cafè Mancuso, ovviamente dedicato all’omonimo DJ

Ottimo articolo dall’e-commerce di Hi-Fi Ecoacustic sul fenomeno dei Listening Bar

L’articolo di “In Sheep’s Clothing Hi-Fi” che forse a suo tempo ha dato l’abbrivio al nostro interesse per i Listening Bar

Vite difficili

Questa sera, a breve distanza da un evento che definirò “epocale”, volendo dargli una connotazione positiva, ma in realtà uno dei momenti più duri e difficili della mia vita, voglio condividere qualche pezzo della mia biografia e ritengo che questo sia il posto adattissimo! Non sono qui con scopi narcisistici di grandi volumi di lettori, non chiedo pareri entusiasti di nessuna specie, anzi sono consapevole che vado a scrivere qualcosa di amaro e senza lieto fine, ma mi piace pensare che dentro a questo tumblelog qualcuno, grazie a qualche parola chiave o forse grazie a qualche aspetto ancor più legato alla sola serendipità, potrà trovare una vicinanza di dolori e un momento di empatia letteraria, buona a farlo sentire meno solo.

Sto per raccontare un po’ della mia vita familiare passata decenni in compagnia di una sorella maggiore (abbastanza regolare, almeno lei, anche su ultimamente un filo smartphone-dipendente) e a due genitori, buoni (buoni veramente?!) ma fortemente colpiti da malattie psichiche mai del tutto diagnosticate, giustificate e curate.

Non essendo uno psicoterapeuta ne tantomeno uno psichiatra, non potrò descriverle scientificamente ne dargli il giusto nome, anche se in parte, durante i tardi sviluppi della nostra storia familiare, mia madre è passata sotto l’osservazione di uno psichiatra.

Mio padre è scampato a questo supplizio, gente degli anni ’30 dello scorso secolo i miei, generazioni per cui andare sotto la lente di uno specialista della materia era già un’onta in se, e credo rimandasse a paure antiche, degli anni pre-legge Basaglia, in cui magari una volta trovata anche solo una traccia di un semplice “esaurimento nervoso” (così chiamavano all’epoca la depressione), rischiavi di finire chiuso dentro a un “manicomio” (antiche strutture di “cura” psichiatrica).

Perciò non saprò mai quale fattore o malattia avesse originato quella stranissima, odiosa abitudine (anzi, patologia, probabilmente una forma di schizofrenia) di parlare continuamente da solo in maniera rabbiosa contro vari nemici ipotetici, tra cui mia madre, e altri conoscenti, in cui evidentemente vedeva tutte persone pronte ad attaccarlo. Ho anche fatto qualche ricerca in rete, ma stranamente questo problema non trova uno straccio di definizione nel mezzo in cui siamo ormai abituati a trovare risposte a qualsiasi domanda.

Non so se sia immaginabile per chi non abbia avuto un caso del genere tra i parenti, la vergogna che si prova da bambini mentre si è costretti a presentarsi in quasi tutte le occasioni in compagnia di una persona che da spettacolo in questo modo pietoso. Inoltre, credo sia altrettanto inimmaginabile la pena che si prova allo stesso tempo per una persona, sante del tuo sangue, che sta soffrendo di una situazione del genere pur essendo in tantissime cose un uomo validissimo: ho il vago ricordo di avergli provato a parlare disperato di questa cosa, ma ricordo le risposte evasive e piuttosto rabbiose che mi venivano date quando tentavo di trattare il problema.

Mia mamma invece aveva altri problemi, forse ancora più subdoli: al di là di essere completamente incapace di gestire le sue sostanze, credo mentalmente pressata anche lei dall’essere persuasa di non essere all’altezza del suo patrimonio, dava poi sfogo ad elementi educativi mal assimilati (e forse mal insegnati) per cui ad esempio stipava qualunque cosa avesse in passato acquistato, più anche oggetti di altra provenienza dentro casa, probabilmente persuasa che le sue poche capacità e attitudini l’avrebbero probabilmente resa bisognosa in futuro di attingere da queste “scorte” messe da parte nel tempo. Di questa malattia ho trovato il nome in rete: viene definita disposofobia (letteralmente “paura di disfarsi delle cose”).

Ma la lista delle problematiche e delle cose in cui si rendeva debole e ridicola agli occhi degli altri è ancora molto lunga, per descrivere tutto credo dovrò tornare all’articolo più volte e completarlo man mano che mi vengono in mente le tante défaillance occorse a mia madre negli anni.

Possiamo introdurre qui, per poi proseguire più agevolmente, le patologie trovate dallo psichiatra, quando in occasione del tentativo da parte di noi figli di interdirla dal compiere ulteriori danni al proprio patrimonio oltre a quelli già compiuti in passato, siamo riusciti dopo tanti anni in cui, pur – ripeto – non essendo dei professionisti in materia, un po’ di intelligenza, di intuito e di cultura ci ha permesso di sospettare che quelle di nostra madre non fossero soltanto cattive abitudini, ma vere e proprie problematiche psichiche da trattare terapeuticamente.

Il dottore che l’ha visitata per la prima volta da questo punto di vista qualche hanno fa ha diagnosticato dei “deliri paranoidei” e delle “turbe ideative”, oltre a l’incorrere a quel punto della sua vita dell’inizio di una più ricorrente demenza senile.

Uno dei punti che voglio mettere alla luce, è che persone di questo tipo, non così rare in società, se non vengono costrette in qualche modo ad essere visitate, possono rimanere inserite all’interno delle proprie famiglie in qualità di “capi” di un nucleo familiare, con la possibilità tutt’altro che rara di influenzare negativamente il/la partner e ancor peggio i figli nel loro sviluppo personale, nonché nelle molteplici attività della vita, dalla crescita allo studio, dalla formazione della personalità e della propria immagine nella società.

Siamo arrivati all’opposto dell’era pre-legge Basaglia, per cui allora si attribuiva l’onta della follia con una certa disinvoltura e si passava altrettanto rapidamente a cure particolarmente drastiche. Si dice che una volta capitasse anche solo a semplice delazione che un individuo venisse recluso in manicomio e magari gli venissero praticate “terapie” come l’elettroshock con una certa facilità, ma dalla legge Basaglia appunto, in Italia c’è una sorta di difesa dell’individuo, per cui se il singolo non decide di dichiarare la propria difficoltà, gli altri di fatto non possono intervenire, salvo che il soggetto non sia un minore e a interessarsi non siano i genitori. Come la prima situazione era dannosa, a mio livello anche il suo attuale opposto crea dei danni incommensurabili alla società, con persone affette da patologie, libere di danneggiare se e il prossimo in svariate maniere, che qui sarebbe impossibile esemplificare.

Al termine di questo resoconto, non ho grandi consigli da dispensare, io stesso non so come ho fatto a rendermi immune da questi problemi dei miei genitori, ne se lo sia effettivamente del tutto. Uno dei più grandi aiuti me l’hanno dato loro, in particolare mio padre, facendomi prendere passione per lo studio. Forse era consapevole che una parte dei suoi problemi e di quelli di mia mamma, derivavano da un deficit educativo maturato all’interno di famiglie povere che non li avevano fatti studiare, anche se a dire il vero tutta quella generazione cresciuta nelle periferie non aveva avuto mediamente a quanto ne so accesso allo studio, senza che tutti i coetanei dei miei abbiano sviluppato questi spaventosi limiti al proprio sviluppo che hanno subito i miei. Cosa li abbia schiacciati in particolare è un mistero che cercherò di risolvere negli anni, se i parenti riusciranno a darmi una mano, ma che credo rimarrà almeno parzialmente irrisolto.

Cosa che mi provoca un grande dispiacere, perchè dietro a questa massa di problemi e di dolore, c’erano due persone valide, forse accomunate dall’essere di base intelligenti e fin troppo sensibili, schiacciati probabilmente dalla mancanza di opportunità di sviluppare il loro potenziale.

L’alchimista tropicale Jorge Ben

Un disco tra i più importanti della mia collezione, e visto che non ci ho mai scritto su nulla, mi pare il minimo condividere questo di “Turrefazioni”!

turrefazioni

Certi dischi entrano nella vita come le persone delle quali ti innamori: un caso colto al volo, l’irrazionale e irripetibile colpo di fulmine, la conoscenza comune che funge da tramite. Se parliamo di musica brasiliana, per me vale la terza opzione e anche qui ringrazio David Byrne. Comperata per cinquemila lire nei primi ‘90, la compilation Brazil Classics 1: Beleza Tropical (numero uno del catalogo Luaka Bop, tramite il quale l’ex Testa Parlante propone cose buone dal mondo) fu la pietra filosofale che mutò in oro quanto, stupidamente, associavo a oleografia. Nei miei venti-e-qualcosa fu una benedizione capire che dietro le cartoline c’erano autentiche meraviglie, e in tal senso Beleza Tropical parlò subito chiaro con il funk carioca Ponta De Lança Africano (Umbabarauma) e un’ipnosi che si impadronì di gambe e stomaco disegnando un’epifania coloratissima.

E multiforme è la carriera del suo artefice, Jorge Duilio Lima Menezes in arte Jorge…

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Westworld – Il mondo dei robot

Quello di cui andiamo a parlare oggi non è propriamente un film sulla cresta dell’onda, anzi, se non fosse stata per una di quelle coincidenze con cui spesso e volentieri qui a “Total Rekall” facciamo un approfondimento (a breve spiegherò cos’ha a che fare la pellicola anche con il nome del sito), non sarebbe bastato il passaggio nei vari canali televisivi a permetterci di vederlo, dal momento che in TV da anni questo film latita.

Definita da qualcuno una “pellicola di serie B” (avercene di b-movies diretti da Michael Crichton), una prova “minore” di Yul Brynner, ha sì qualche aspetto da film a basso costo, una certa sbrigatività con cui si sviluppa la storia in particolare, qualche dialogo imbarazzante tra gli scienziati, i set, col pretesto di essere in villaggi-divertimento, sono inequivocabilente all’interno degli Studios di Hollywood.

Però appena parte lo sviluppo degli eventi, e in forma ancora maggiore mentre si sviluppa, si ha la netta sensazione di avere a che fare col “papà” di tutti i successivi successi sci-fi degli anni ’80!

La trama è molto semplice: una coppia di amici, impersonata da James Brolin (padre del più noto Josh) e Richard Benjamin, parte alla volta di un viaggio “artificiale” all’interno di tre mondi possibili, organizzati da una società denominata “Delos”, dal nome dell’isola greca di Delo. Questi tre mondi possibili sono l’antica Roma, dedicata più a clienti che cercano esperienze edonistiche, il medioevo, per chi ama più aspetti di costume e cavallereschi e il west del 1880, per chi è alla ricerca di una vacanza più avventurosa a base di duelli a colpi di pistola, come i due protagonisti.

Già alla partenza del viaggio, in un futuribile overcraft che porta i turisti in mezzo al deserto americano dove si trovano queste tre realtà, si ha l’impressione che questa idea abbia potuto ispirare persino “Un tranquillo week-end di paura” (Deliverance il titolo originale), e “Atto di forza” (Total Recall), dove nel primo caso l’esperienza distopica, la ricerca di un ritorno al contatto con la natura avviene nella realtà di un’enclave “redneck” americana, mentre con la seconda pellicola menzionata scomodiamo addirittura Philip K. Dick, il maestro della letteratura distopica dove i replicanti si rivoltano contro l’uomo.

Durante lo svolgimento del film, mentre tutto il gruppo di turisti si diverte parecchio e beneficia del fatto di poter approfittare dell’accondiscendenza delle macchine, che devono farsi uccidere o sedurre dai danarosi che hanno potuto accedere a questo servizio piuttosto esclusivo succede qualcosa: che le macchine, riprogrammate da altre macchine iniziano a cambiare comportamento e ad attuare una condivisa violenza rivolta contro l’uomo, che fino ad allora nel cinema era stata considerata solo da Kubrick in “2001, Odissea nello spazio”, quando il computer Hal si rivolta contro il protagonista.

Devo dire di essere arrivato a questo film, come accenavo all’inizio di questo articolo, solo per il fatto di aver scoperto che esistesse una pellicola dallo stesso nome del gruppo inglese che ha prodotto il mitico pezzo “Dreamworld“, perla delle selezioni di Leo Mas alla discoteca Movida di Jesolo. Notando che essa era precedente alla formazione, ho pensato che necessariamente avesse dovuto ispirarne il nome (in effetti l’esperienza straniante che avviene nel film è normale abbia suggestionato i produttori che stavano cercando coi loro pezzi di favorire lo straniamento dei punter nella pista da ballo nel decennio successivo).

Altra coincidenza piuttosto singolare è che sono arrivato a scoprire questo film proprio mentre terminavo un corso con l’MIT di Boston in cui venivano spiegate le opportunità e le problematiche dell’intelligenza artificiale e se ne dibattevano le possibili insidie; pensare a questo punto che ci fossero già dei pensatori come Crichton, come Dick e altri autori ancora precedenti che riflettevano su questi temi cinquant’anni or sono o ancora precedentemente fa sempre rilettere come una ristretta intellighenzia in grado di attingere a certi dati e a soppesarli con lustri di anticipo sulla gente comune.

Se dovessimo fare dei riferimenti a film più recenti, possiamo dire che ce ne sia più di uno che trae certamente ispiraizione da questo, dimostrandone il valore assoluto a discapito di quanto asseriscano i detrattori. Possiamo citare certamente Terminator, per la tematica molto simile (il cyborg a caccia di umani), Predator per certe scene (in quel caso l’extraterrestre ha un sistema di visione mandato in crisi dal camuffamento dell’umano), e appunto come dicevamo, la trama di Atto di Forza è molto similare, con gli umani che vanno alla Rekall a fare viaggi questa volta nel futuro e in altri universi, anzichè negli ambiti storici terrestri proposti dalla Delos.

Rassegna musica nel cinema 2020

Per celebrare la gioia delle sere d’estate, messa a dura prova dai divieti relativi al nuovo Coronavirus, abbiamo approntato un calendario di film e documentari legati in qualche modo, più o meno diretto, al mondo della musica e della notte.

Per variare le esperienze che verrano godute nelle sei serate, abbiamo scelto di prendere la questione da diverse prospettive, dal documentario che prende molto sul serio la questione, alla commedia surreale che scherza con le esperienze notturne new-yorkesi, precorrendo l’era degli after-hours in Italia ed Europa.

Trovate titoli di registi misconosciuti accanto a quelli di maestri della settima arte, lungometraggi recenti a fianco di opere ormai più che trentennali, insomma, senza pretesa alcuna di essere esaustivi, abbiamo messo insieme una rassegna che dovrebbe assicurare il divertimento.

Qui di seguito la “locandina” dell’evento, che si svolgerà in località segreta, che sarà comunicata ai soli che ne faranno richiesta.

Fateci sapere se la proposta vi attizza:

Calendario cinematografico 2020

Per ulteriori dettagli consultate le altre sezioni di questo tumblelog alla voce “cinema” e “musica“.

La Warp Records, il bleep ‘n’ bass e l’IDM

Quello che è accaduto nell’ultimo trentennio in tema di musica elettronica, rivolta prettamente al dancefloor o pensata per ascolti di fronte al proprio hi-fi o alla propria consolle, è certamente dato dall’interazione di innumerevoli soggetti, facenti parte di più scene, ma se dobbiamo citare un protagonista in particolare, più che a un musicista a mio avviso dobbiamo rivolgerci a un’etichetta musicale, la WARP!

Tricky Disco

Etichetta di cui venni a conoscenza nei primi anni ’90 grazie al sound della Magica Triade al Movida di Jesolo, associata alle uscite di gruppi di culto nell’ambito dance, tanto per fare qualche esempio cito qui di seguito le tracce “LFO”, “Tricky Disco” e “Testone”, non è stata la prima ad aver seguito nel mondo le evoluzioni del genere, Transmat e Trax e più ancora la Mute sono progetti specifici dell’ambito elettronico partiti prima, inoltre le grandi etichette generaliste come la EMI erano le stesse che pubblicavano fino ad allora anche i musicisti elettronici, come Jean Michelle Jarre, Brian Eno o i Kraftwerk; ma è stata la capacità di quella che era partita per un breve periodo come “Warped”, salvo poi semplificare il nome come tutti sanno per le complicazioni che all’epoca si presentavano nel pronunciare quella parola al telefono, a dare una cornice coerente, sia dal punto di vista degli artisti selezionati per il proprio roster, sia da quello dell’immagine grafica fatta di scelte cromatiche (vedi le ormai celebri copertine ed etichette apposte sui vinili dal caratteristico color malva) e di minuziose note a margine dei dischi, che portarono l’elettronica, da universo di secondo piano com’era visto dagli appassionati di musica fino ad allora, all’immagine che ne abbiamo oggi, della forma musicale che connota in modo principale la scena odierna, una volta che gli ultimi baluardi del rock, la scena grunge, sono ormai cosa di tanti decenni fa, e i tentativi di rifare il verso “enne” volte a un’ideale scena rock del passato, vedi tanto per fare qualche esempio lampante gli Strokes, gli Interpol, i White Stripes o i Franz Ferdinand, non hanno troppo convinto fino ai loro inizi. Al contrario, la musica che prevede la preponderanza di suoni elettronici, è ormai come sostiene DJ Rupture nel suo ultimo saggio “Remixing” La musica rock dell’epoca attuale, per di più un po’ in tutto il mondo, dal momento che anche nel più disperso villaggio africano un ragazzo può produrre una track al cellulare con Fruityloops.

A tale constatazione era giunto trenta anni fa Gianluca Lerici, conosciuto come Prof. Bad Trip, che nell’intervisto che ho pubblicato nell’articolo a lui dedicato, sostiene, peraltro dopo una militanza attiva in diverse formazioni punk, che dopo aver sentito le prime tracce techno e acid non riusciva più ad ascoltare la musica fatta con strumenti a corde, a fiato o a percussione, che gli suonavano – è proprio il caso di dire – desueti. Percorso analogo lo aveva fatto Leo Mas negli stessi anni, essendo stato anch’egli membro di una formazione punk, dopo aver sentito Acid Trax dei Phuture (la formazione originaria ove militava a metà anni ’80 DJ Pierre) disse che aveva avuto la netta sensazione di sentire qualcosa altrettanto dirompente del punk!

Proprio la Warp ha dato un’immagine di credibilità al genere, e a oggi i principali artisti della sua scuderia sono ormai considerati dei musicisti di riferimento a fianco di quelli più tradizionali anche all’interno delle recensioni delle principali riviste di settore, da Blow-Up, in cui le gesta di Autechre e Aphex Twin sono state seguite con attenzione fin dagli esordi, a Ondarock, passando poi per gli odierni riferimenti on-line specifici della scena elettronica (ormai il fenomeno è ribaltato: questo è il genere principale, e chi utilizza vecchi strumenti meccanici come chitarre, bassi e batterie è divenuto soggetto di nicchia nel panorama musicale odierno), da Factmag a Parkett Channel, da Pitchfork a Rockol. Solo il vecchio portale di Piero Scaruffi (all’epoca dei suoi sei volumi sulla storia del rock il mio riferimento) non ha dato la giusta rilevanza al fenomeno.

Tornando alle origini dell’etichetta, essa è stata fondata nel lontano 1989 a Sheffield, città degli Human League e dei Cabaret Voltaire, da Robert Gordon, Steve Beckett e Rob Mitchell, tre ventenni della città che approfittarono dell’ “Enterprise Allowance”, una norma introdotta dal governo Tatcher che prevedeva un contributo per i disoccupati che avessero aperto un’attività.

Il primo lavoro a carico di quest’etichetta è l’ormai celebre “Track with no name” dei Forgemasters (nome catalogo: Wap1), di cui Gordon stesso era membro, seguono una serie di hit di quello che non sappiamo se e come fosse stato definito allora, ma negli anni a venire verrà prima riscoperto da Simon Reynolds nel suo “Generation ecstasy” / “Energy Flash” a fine anni ’90 e successivamente da altri giornalisti musicali fino a Matt Anniss con la sua doppia opera libro/compilation “Join the future” del 2020 e denominato “Bleep and Bass”.

Questo movimento fu la risposta inglese ai generi elettronici da ballo americani, la house music, l’acid house e la techno di Detroit, a cui gli inglesi risposero con questi “bleep” sopra alla cassa che andavano a mimare scenari elettronici futuristici, come segnali dallo spazio o da remoti calcolatori intenti ad elaborare frequenze audio da inviare a destinazioni misteriose. La suggestione che ebbero allora questi pezzi fu notevole, la ricordo bene mentre da adolescenti la scoprivamo nei principali club di musica elettronica del nord-Italia.

I nomi principali di queste uscite sono ormai leggendari per chi ama questa scena, da Tuff Little Unit a Sweet Exorcist, da Tricky Disco a Black Dog (poi divenuti Plaid) passando per Nightmare on Wax – che pur facendo parte del roster di WARP fin dal principio aveva però uno stile differente tanto da non potersi ascrivere direttamente all’universo bleep – e Unique 3 che mi sento di dover annoverare in questa retrospettiva anche se non pubblicava con WARP, ma di cui la track “The Theme” è universalmente riconosciuta come il primo pezzo Bleep & Bass della storia.

Black Dog – Virtual versione originale

Il primo gruppo a sfondare nelle classifiche furono però gli LFO, prima col singolo omonimo, tra quelli con la ormai celebre copertina lilla, poi con LP “Frequencies”, pietra miliare del genere, di cui come per i Pink Floyd con “The Dark Side of the Moon” e per i Cabaret Voltaire con “Groovy, Laidback and Nasty” (quest’ultimo coevo dell’epoca WARP), possiedo sia vinile che CD.

Senza stare lì a riportare l’intero catalogo, possiamo dire che attraverso la pubblicazione della serie “Artificial Intelligence” la WARP vira nella direzione che l’avrebbe resa grande, quella di lasciare in secondo piano il dancefloor per introdurre quella corrente che sarebbe divenuta famosa come “IDM”, ovvero “Intelligent dance music”, quintessenza dello stile WARP. Tracce dove la cassa è meno o per nulla presente, la forma di stampa che viene presa è l’album in luogo del semplice 12″ e lo stile sta tra il chill-out e la Detroit Techno.

A caratterizzare questa seconda fase sono artisti già citati più i Boards of Canada, altra punta di diamante dell’etichetta, Luke Vibert, Squarepusher, Yves Tumor, Vincent Gallo, Flying Lotus, Mark Pritchard, Oneohtrix Point Never tra i principali.

La WARP si è occupata anche di produzioni video, testimone di questo filone il DVD :

Warp Vision: The Videos 1989-2004

Per concludere questa prima pubblicazione dell’articolo, che andrà in seguito integrato con recensioni e varie, allego l’articolo di Simon Reynolds su Fact Magazine ove il giornalista inglese traccia la lista delle principali track del genere Bleep ‘n’ Bass:

The 20 best bleep records ever made

e a seguire, prima della bibliografia, il link all’evento WXAXRXP in collaborazione con NTS Radio, dove lo scorso 19 giugno 2019 sono stati festeggiati i trent’anni dell’etichetta con 100 ore di musica, selezionando session dei principali artisti della label:

WXAXRXP on NTS Radio

Bibliografia:

Energy Flash – Simon Reynolds – Arcana Editrice

Join the Future – Matt Anniss – Velocity Press

Warp Labels Unlimited – Rob Young – Black Dog Publishing

Il numero di gennaio 2020 di Mixmag che celebra il trentennale della WARP

La puntata di Battiti di Rai Radio 3 su Ex-Machina di Valerio Mattioli

Il sito ufficiale dell’etichetta inglese

Discografia:

partiamo col proporre le tre antologie, pubblicate a ogni decennio compiuto dall’etichetta inglese:

WARP 10+

WARP 20

WXAXRXP

Per ultimo, se voleste immediatamente acquistare qualcuno dei dischi che abbiamo citato in questo articolo, di seguito riporto il sito Bleep.com, l’e-commerce ufficiale della WARP Records.

L’arte di prof. Bad Trip

Un personaggio in cui questo tumblelog, per certi versi parecchio controcultale, o quantomeno non solo attento, ma zeppo di argomenti di nicchia, è il prof. Bad Trip, al secolo Gianluca Lerici (1963-2006).

Personaggio di nicchia fino a un certo punto, dal momento che nell’ambito del fumetto – non solo italiano – questo autore è famosissimo.

Autore spezzino dalla biografia almeno per me – e credo per tutti gli individui della working class – assolutamente emozionante, cresciuto con ogni probabilità in una famiglia di muscolai (coltivatori di cozze), dal momento che a quanto racconta egli stesso nel documentario che è inserito anche in questo articolo, i professori conservatori del suo liceo scientifico lo deridevano già dai primi anni di superiori dandogli quell’epiteto (buoni quegli insegnanti), e dal momento che anch’egli una volta finita quell’esperienza esercitò per alcuni anni quell’attività, intuito il suo talento artistico inizia ad evolvere negli anni giovanili, prima all’interno del mondo musicale, ove milita nella seconda metà degli anni ’70 in diverse formazioni punk, dagli Holocaust ai Fall-out assieme all’amico Benzo, poi frequentando profittevolmente l’accademia di Belle arti di Carrara, dove affina il suo innato senso artistico. Da quel periodo in poi inizia a produrre i suoi primi lavori col nome d’arte di prof. Bad Trip. Nome perfetto per il suo stile, che per la massa del suo pubblico fa pensare a un brutto “viaggio” chimico dopo aver calato un acido, idea che prima di lui aveva avuto un’oscura etichetta di punk/hard core californiano e che egli giustamente con l’arte del cut-up aveva fatto sua, intentendo non tanto l’interpretazione più scontata, quanto piuttosto una condizione planetaria per noi e il resto del mondo, causata dal pesante intervento dell’uomo nell’ambiente.

Oltre a questa biografia, dove un ragazzo che parte dal nulla arriva a fare le copertine agli Psychic Tv di Genesis P. Orridge e ad essere pubblicato da Mondadori, la cosa che va ben dichiarata in questa sede è la forza del suo tratto diventato un potentissimo marchio di fabbrica: si può dire figlio della tradizione fumettistica italiana, con il Max Bunker di Kriminal e Satanik in primo luogo, ma prima di esso, il suo tratto fortemente marcato, da xilografia, è erede diretto dell’iconografia protestante, in particolare il tema della danza della morte, mediata precedentemente nei primi del ventesimo secolo dagli espressionisti tedeschi. A livello letterario, uno su tutti gli autori da citare è l’inglese James Graham Ballard, maestro della “fantascienza interna” contro la classica fantascienza dello spazio, la cui opera è oggetto di ispirazione dichiarato da Lerici.

La sua opera definita cyberpunk, sia perché questo termine è assonante alla sua militanza musicale, sia perché effettivamente si rifaceva nei suoi fumetti a quel tipo di letteratura (storica è la riduzione de “Il pasto nudo” di William Burroughs per la Shake edizioni, nota casa editoriale concentrata sulla controcultura) è un concentrato di immagini psichedeliche. Se dovessi dare un parere, in molte opere di prof. Bad Trip, il quale non si è solo occupato di fumetti, ma ha spaziato in tutte le arti, dalla pittura alla scultura, passando per il collage (nonché rimasto grande appassionato di musica anche dopo l’esperienza giovanile, negli anni a venire era andato in fissa per la techno), trovo che sia il naturale erede di Enrico Baj. Il mio è un parere senza precedenti e quindi senza paracadute, ma se guardiamo a certe opere totemiche dell’artista spezzino, ai volti allucinati dei suoi personaggi, nonché a certi aspetti della sua poetica, trovo siano l’evoluzione delle tematiche dell’artista milanese (secondo me pure progenitore del punk, senza che Vivienne Westwood affermi o meno questa gemmazione, e quindi in una sorta di Ouroborus ci ricolleghiamo immediatamente a Lerici e alla suo spirito punk), anch’egli, avendo fondato il gruppo degli artisti nucleari in gioventù, si dimostrava molto preoccupato per la degenerazione della violenza in un prossimo futuro, sempre spaventato dai possibili soprusi delle forze dell’ordine come dimostra la sua opera più importante, “I funerali dell’anarchico Pinelli” e anch’egli aveva quella inclinazione all’addobbo, con cui decorava suoi ufficiali, dandogli poi, se andiamo nel dettaglio dei volti, delle caratterizzazioni esageratamente marcate ai tratti del viso e delle espressioni allucinate in cui intravedo in trasparenza quanto nei decenni successivi prodotto dal Lerici. Anche se quest’ultimo non lo ammetterà mai, mettendoci sicuramente tutta l’onestà intellettuale che gli riconosco, l’aspetto interessante è che molte appropriazioni che gli artisti attuano, sono del tutto inconsapevoli, come ben spiegato in alcuni capitoli di “Sound Unbound” di Paul D. Miller, filosofo e DJ americano, molto interessato ai temi del cut-up e delle citazioni.

Per ulteriori approfondimenti sulla sua opera rimandiamo alla bibliografia, dove prima di tutto c’è il sito cresciuto attorno all’associazione di amici che ne promuove la conoscenza, gomma tv, mentre come al solito in questa sede mi occupo di mettere a immediata disposizione dei visitatori i contributi video più interessanti che ho trovato, il primo, questo video biografico raccontato dalla compagna di vita di Gianluca Lerici, Jena Filaccio:

il secondo è il montaggio in cartone animato ad opera di Domenico Gemelli, suddiviso in due puntate:

Bibliografia:

il sito a cura degli amici e compagni di percorso di prof. Bad Trip Gomma.tv

La pagina del sito di Shake edizioni dedicata a Gianluca Lerici

Sound Unbound – Paul D. Miller – Arcana Edizioni

Terminiamo con questa perla, un’intervista diretta a Gianluca Lerici, a.k.a. prof. Bad Trip:

La trilogia degli Illuminati e le sue filiazioni

Cominciamo ad abbozzare un articolo riguardo l’opera di Robert Anton Wilson e Robert Shea e tutto quanto è sorto per gemmazione negli anni a venire. Ci sono fior di siti e tanto di pagine su Wikipedia a questo riguardo, ma cercherò di darne una mia visione personale e una particolare contestualizzazione nel solco di quanto narrato in questo tumblelog.

La Trilogia nasce a partire dal primo romanzo “L’occhio della piramide” del 1975, per poi proseguire con “La mela d’oro” e “Il leviatano” forse prendendo in parte il suo spunto da testi precedenti come quella sorta di hard-boiled mistico di “Mumbo Jumbo” dell’autore afro-americano Ishmael Reed, testo degli anni ’70 dello scorso secolo; si narra da molte fonti che sia stata lo spunto per best seller di divi della pagina stampata come Umberto Eco col suo “Il Pendolo di Focault” e la saga di Robert Langdon di Dan Brown. Certamente il saggio inetichettabile di John Higgs, “Complotto” nella versione italiana e “KLF” nella versione originale, tratta ampiamente il putiferio e l’entusiasmo sollevato negli anni da questa deflagrante Trilogia.

Io li segnalo come dei titoli assolutamente imprescindibili per chi si interessi agli argomenti e ai filoni trattati nel mio blog e invito tutti a tuffarsi nell’incredibile avventura per la mente provocata dagli strippi psichedelici del duo americano!

Mentre per quanto riguarda il saggio sui KLF di Higgs, che possiamo definire una “mega-recensione” sull’opera del duo Drummond-Cauty nelle varie denominazioni utilizzate negli anni, voglio suggerire il confronto tra questo incredibile approfondimento, con quello che comporta nella fruizione di un progetto di tale complessità (a volte sconfinante nell’astruso e nel puro dada/situazionismo) e quello che è stato per quanto mi riguarda uno dei maggiori fari nella scoperta del rock (o almeno era quello che avevo pensato in larga parte almeno a fino questo confronto impietoso), ovvero l’italiano Piero Scaruffi, esportato da decenni negli USA nella sua qualità di ricercatore. Questo eclettico soggetto è per alcuni appassionati di musica una leggenda (tra luci e ombre) nella categoria dei critici musicali, avendo scritto i sei volumi de “La storia del rock” di Arcana Editrice, poi confluiti nel suo delirante sito enciclopedico sulla storia dell’arte mondiale dalla nascita di Abramo in poi. Questo lavoro, che egli pretende essere esaustivo sull’argomento, si vede nel raffronto col lavoro di Higgs quanto abbia un approccio superficiale, basato su un frettoloso ascolto e su una raffazzonata raccolta di informazioni. Leggete la scheda collegata al link che riporto qui sotto e tiratene le conclusioni:

Piero Scaruffi – KLF

Non si fa così caro Piero, ma grazie del tuo indiscusso impegno!

Se passiamo a definire il contributo del libro di Higgs invece, ogni fan dei KLF dev’essere profondamente grato per questo lavoro, che mette in connessione passo-passo la saga de “The Illuminatus” con i pezzi del duo, facendoci comprendere esaustivamente la progressione di album, gag situazioniste, uscite e rientri in scena di questi due folli personaggi e certi atti da loro espressi lungo un percorso ormai ultra trentennale.

Bibliografia:

il sito di Robert Anton Wilson

Complotto – John Higgs – Nero Edizioni

Mumbo Jumbo – Ishmael Reed – Rizzoli

Electro: elettronica, visioni e musica

La musica techno e house è ormai arte totale. Un importante evento a cura di Jean-Yves Leloup già tenutosi alla Philharmonie de Paris e passato per la 58esima Biennale di Venezia 2019 e successivamente a Londra (nella prestigiosa sede del Museo del Design), si appresta a raggiungere Dusseldorf (al locale palazzo dell’arte), celebrando l’evidente successo dell’ondata dance basata sulla strumentazione elettronica.

Tale stile musicale, essendo stato fin dal principio irradiato da un solo individuo, quasi mai molto appariscente, posto dietro a una consolle, il dee-jay e non più da vistosi complessi od orchestre, ha promosso la partecipazione del pubblico, da spettatore a co-protagonista di quanto accadeva, prima nella discoteca, successivamente nei rave, fino ai grandi eventi degli ultimi anni, ADE (Amsterdam Dance Event) e Tomorrowland su tutti.

Lo Smiley diventa soggetto di un'opera d'arte contemporanea

Untitled (The Endless Summer) – Bruno Peinado – 2007: Pannello composito in alluminio, lacca, taglio CNC, neon, variatore, trasformatore. Edizione di otto esemplari; Courtesy Galerie Loevenbruck, Parigi.

Da situazioni semi (o del tutto) clandestine, la lunga serie di happening, o per certi aspetti eventi mistico-iniziatici accaduti negli anni ha dato luogo a quello che ormai, a partire da questa mostra inserita nella kermesse più importante al mondo, è promosso pienamente come movimento artistico. Tali eventi accadevano nel Regno Unito sotto forma di rave illegali, in Italia (riviera adriatica, tra Riccione e Jesolo) e Spagna (Ibiza in particolare) dentro a locali che erano delle situazioni a volte di legalità sospesa o presa quantomeno un po’ sottogamba. Si pensi che in Gran Bretagna fu promulgata al riguardo una legge specifica, il Criminal Justice and Public Order Act del 1994. Per quanto riguarda l’Italia, vi fu tutta la stagione delle “mamme rock” e delle ordinanze per anticipare la chiusura dei locali.

E’ appurato dunque che sia gli eventi clandestini accaduti nelle campagne inglesi narrati da Simon Reynolds in “Generation Ecstasy“, che quelli accaduti in Italia descritti in questo tumblelog siano passati, da fenomeni da censurare come venivano trattati (e avversati) mentre si sviluppavano, a fatti artistici tout court meritevoli di una postuma musealizzazione.

Dancefloor: Panorama 1987-2017 AA. VV.

Tra gli artisti che hanno contribuito compaiono Jacob Khrist, Soundwalk Collective, Bruno Peinado, Moritz Simon Geist, 1024 architecture e molti altri. Un nugolo di fotografi sono quelli direttamente coinvolti nel fenomeno rave e dance della propria nazione: da Alexis Dibiasio a Olivier Degorce, da Alfred Steffen a Caroline Hayeur, la carrellata di personaggi e di luoghi è estremamente vasta e permette a chi non fosse già addentro di farsi un’idea dell’universo variopinto che dà vita a questo fenomeno. L’opera “Divinatione” del fotografo Jacob Khrist in particolare, vuol promuovere l’evoluzione di Parigi come novella metropoli europea coinvolta nel fermento rave/elettronico internazionale.

Particolarmente interessanti i lavori prodotti dal collettivo 1024 Architecture, François Wunschel, Jason Cook e Pier Schneider, CORE, un viaggio sensoriale e visivo, ove attraverso fibre ottiche, al ritmo del sound di Laurent Garnier si anima uno spettacolo luminoso 3D:

e “Walking-cube”, un prodigioso sistema di automazione, ove una struttura metallica sollecitata da segnali digitali si muove, cambiando forma e dimensioni, emettendo inoltre un suono ritmato molto coinvolgente; lavoro questo in continuità a dire il vero con tutto un filone già visto in scorse edizioni della Biennale piuttosto che della dOCUMENTA di Kassel, e certamente in un’installazione al museo di arte moderna di Budapest di cui eventualmente in futuro darò maggior conto:

Moritz Simon Geist, performer, musicista e ingegnere,  espone un esemplare della sua collezione di robot sonori MR-808 Interactive, che replica il suono della celebre drum machine cui si ispira, la Roland TR-808, strumento principe fin dalla sua creazione per tutta l’house la techno, a fianco della sorella TB 303 le cui linee di basso vennero sfruttate con particolari tecniche per il genere acid house. La 808, come è ovvio, dà il nome al leggendario duo inglese 808 State.

Per quanto riguarda l’edizione veneziana, nel succulento ciclo di conferenze curate da Guglielmo Bottin, oltre alla performance di Bruno Belisimo, all’ottima conferenza di Fabio De Luca, alla presenza di Lele Sacchi (di cui consiglio il recente saggio “Club Confidential”) segnalo come sigillo della manifestazione l’intervento sullo stile “Balearic” e successivo dj set del co-fondatore di questo genere, Leo Mas. In Francia, Inghilterra e Germania la mostra ha compreso nel titolo il nome degli artisti nazionali più noti nel genere, Daft Punk, Chemical Brothers e gli iniziatori di tutto il movimento a Dusseldorf, (in quei Paesi la manifestazione si intitola: “Electro, from Kraftwerk to…” seguita dal nome delle band delle rispettive nazionalità, con l’eccezione della Germania, dove sia chiama semplicemente: “from Kraftwerk to Techno); alla Biennale implicitamente, con la chiusura dell’evento a lui riservata, si è voluta dedicare l’esposizione al DJ milanese celebrando la sua gloriosa militanza. Probabilmente si è preferito non inserirlo nel titolo in quanto personaggio troppo underground per essere immediatamente riconosciuto dal grande pubblico, anche se va detto che Leo è una gloria ultratrentennale nel panorama musicale internazionale, tra le altre cose negli anni ’90, unico periodo in cui abbiamo avuto mega-manifestazioni elettroniche in Italia, è sempre stato l’headliner sia dell’ Exogroove che del Syncopate.

Leo Mas celebrato alla Biennale 2019

Dj eclettico e clubbing alternativo da Ibiza a Jesolo:

Per coloro che si fossero persi sia l’edizione francese, che quella veneziana e anche la tappa inglese, segnaliamo che a dicembre 2021, il nove, parte la versione tedesca al palazzo dell’arte di Dusseldorf (e dove altrimenti), dove il titolo si focalizza sugli eroi di casa già presenti in quelli di tutte le precedenti tappe. Mostra che dura fino al quindici maggio del 2022. Link sulla sitografia.

Bibliografia:

Il booklet della tappa veneziana dell’evento

Generazione ballo sballo – Simon Reynolds – Arcana editrice

A brief history of Acid House “The true story of how a synthesizer accidentally changed the world” – Suddi Raval – Attack Magazine

Join The Future: Bleep Techno and the Birth of British Bass Music – Matt Anniss – Velocity Press

Sitografia:

La pagina della Philarmonie de Paris relativa alla tappa originaria dell’evento

La pagina della Biennale relativa allo specifico evento “Electro”

La pagina della passata tappa inglese dell’evento

La pagina della prossima edizione tedesca

Il sito personale del curatore e produttore veneto Guglielmo Bottin