In questo tumblelog, dove trovano asilo tutte le cose e le situazioni meno popolari, possiamo introdurre un nuovo elemento che in questo momento il “sistema” non comprende tra le scelte possibili, e il cui valore, un po’ come tutto quello che trattiamo, è inversamente proporzionale ai numeri che genera, parliamo oggi dei polacchini Timberland Chukka, noti anche come Newman 1973.
Tanti sono i modi per denominare i polacchini della Timberland, forse il modello che più di ogni altro ha creato il fenomeno di questo marchio, diventato un simbolo su cui sono stati scritti perfino dei saggi.
https://www.timberland.it/limited-edition/iconic-80s-boots.html
Poche operazioni di marketing attorno a un brand di calzature hanno avuto un effetto così deflagrante, poche volte accade che un prodotto venga più apprezzato fuori dalla nazione in cui viene prodotto, ma in casi come questo è probabile avvenga in Italia, Paese in cui il concetto di qualità e stile legati ai frutti dell’industria è più sentito che in qualsiasi altra parte del mondo.

Spesso in questi casi è fondamentale l’intuizione e l’opera dell’importatore che sceglie di investire soldi e fatica su un determinato marchio in cui crede lui prima di chiunque altro. Come per il proverbiale caso di Carlo Talamo con Harley Davidson e Triumph, lo stesso è accaduto qui con Giorgio Faccioli, anch’egli essendo riuscito in un incredibile bis con Clarks prima e Timberland poi (stranamente, prodotti che si rivolgono a platee opposte, pur ognuno dei due proponendo dei polacchini/chukka, le Desert Boot l’una, le Newman 1973 l’altra).
La storia stessa della casa produttrice insegna come sia indispensabile, pur producendo prodotti di qualità, passare dall’anonimato a un brand, studiando un logotipo e un naming efficace, che faccia andare in zucca (metafora molto azzeccata per queste calzature) a milioni di persone un prodotto e scateni un desiderio condiviso, non tanto e non solo collegato a un oggetto e alla sua funzionalità ma a un sistema di simboli accuratamente studiato in quell’affascinante materia che è la semiotica, che trova nei suoi massimi esponenti mondiali Roland Barthes, Umberto Eco e Omar Calabrese, presente tra l’altro nel testo che riportiamo in bibliografia e nell’immagine di copertina di questo articolo, in compagnia di sociologi del calibro di Francesco Alberoni, professori come Silvio Brondoni e di giornalisti come Luca Goldoni, Cesare Marchi ed Enzo Biagi, tanto per dire.
Da questi pulpiti altissimi si può calare nel pratico, nella vita di tutti i giorni, nel casual e trovare casi di studio eccellenti come questo marchio e quello che a nostro avviso è il suo prodotto più iconico (anche se sconta in questi ultimi anni uno inspiegabile oblio di cui magari approfondiamo in seguito) tra tre o quattro modelli azzeccati che hanno creato a suo tempo, dagli inizi degli anni ’80 diremmo, la più grande mania attorno a questo capo di abbigliamento che sia mai esistita. Così come i Beatles assieme a Elvis furono i più eclatanti casi di isterismo delle adolescenti attorno ai fenomeni musicali, solo attorno alle Timberland si è creato quel caso mitologico, ma crediamo accaduto realmente alcune volte, della rapina delle calzature accaduta ai danni dei rampolli milanesi.
Segno che l’oggetto, difficile da acquistare per via del suo prezzo allora assai proibitivo e staccato da tutto il resto del mercato, portava alcuni giovani a gesti inconsulti che non accadevano all’epoca manco per icone sempreverdi anche più preziose e facili da trafugare, come ad esempio i Rolex.

Dicevamo tre o quattro modelli: la Timberland si affaccia nel panorama mondiale, ma sopratutto in quello d’origine (l’America) e quello italiano con quattro modelli in particolare:
i “boots” (per gli amici i six inches) in nabuk giallo, quelli più sfacciati, rimasti più o meno sempre in voga negli anni, stranamente divenuti due decenni dopo il loro primo exploit oggetto di culto anche tra i rapper (uno di questi, Timbaland, ne ha anche mediato il suo nome d’arte), le “carroarmato” (o 3-Eye Lug Handsewn), il mocassino a tre occhielli, con suola “carroarmato” appunto, salsicciotto alla base delle caviglie e proposta normalmente in cuoio liscio rossiccio, le boat shoes con la soletta sottile intagliata a zig-zag per catturare l’acqua presente sul ponte della barca o sul molo e creare un interessante effetto antiscivolo e la Chukka appunto, il polacchino in cuoio liscio arancio, con laccio “brown & yellow”, suola massiccia ma tassellatura sottile, normalmente foderato in pelle e contenente un’imbottitura in gommapiuma, ma talvolta proposto con pelo bianco all’interno nella versione più invernale.
Tale calzatura, dall’aspetto di per se abbastanza sobrio, abbinato a una “patina” che andava prendendo il pellame con l’uso, e a tutto il resto dell’abbigliamento studiato per darne un immaginario – dobbiamo dire – piuttosto riuscito, a cui possiamo abbinare gli aggettivi “yankee”, “casual” e “outdoor”, fatto di gilet imbottiti con fronte in cuoio e il restante in nylon (Schott), camicie a quadrettoni (Controvento, Levi’s, etc…), jeans (Levi’s, El Charro, Chambers), e le irrinunciabili calze a rombi (Burlington).
L’immaginario sembra essere quello delle Rocky Mountain americane, o meglio ancora quello dei grandi laghi e degli stati del nord-est, tra cui il New Hampshire, quello in cui viene fondata l’azienda nel 1973, ben descritto in un testo di un fotografo americano, tale Earl Roberge, che aveva tutt’altri intenti, Timber Country, in cui ci siamo imbattuti a causa del nostro interesse per il legno e la sua lavorazione.

In effetti un look come quello summenzionato rimanda a un preciso tipo di libertà e di contatto con la natura, di gran lunga più sano e più felice di quello proposto da altri marchi che rimandano a immaginari metropolitani, più cool e updated a oggi, ma anche più alienanti (vedi Dott. Martens e Palladium), dove, in tanto materiale fotografico ovviamente un tantino edulcorato, si immagina la montagna non matrigna, ma mamma.e culla di giornate spensierate.
Nessun altro brand è riuscito a veicolare con altrettanto successo un immaginario, tralasciando quelli sportivi, Nike e Adidas in testa, che riuscendo ad azzeccare solo uno stile “street” metropolitano, accontentano più che altro gli adolescenti in una fase ristrettissima del loro percorso di crescita, esaurendo rapidamente la desiderabilità di vestirsi e di vivere a quel modo da bivaccatore di periferie, stile di vita che a una persona benestante e consapevole fa molto poca voglia.
Queste calzature, come si accennava all’inizio dell’articolo, scontano a oggi uno strano destino: da oggetto di culto senza precedenti negli anni ’80 per tutti gli aspetti immateriali descritti sopra, ma anche per una qualità fuori dall’ordinario (soprattutto per via della proverbiale e mai venuta meno impermeabilità dei prodotti brand nord-americano, risultante da diverse lavorazioni esclusive e senz’altro piuttosto costose esse stesse), dopo essere state proposte dalla casa-madre un’ultima volta nel 2019, nel tentativo di un rilancio della moda paninara – sottocultura che ha subìto più di ogni altra un riflusso spaventoso e senza ritorno – con una campagna pubblicitaria che abbiamo riportato nel link sopra, senza aver ottenuto troppa eco, sono state totalmente archiviate.
Un destino indegno per un modello oggettivamente perfetto già sotto il profilo formale e caratterizzato da un certo minimalismo che faceva supporre sarebbe potuto venir riciclato anche in contesti diversi, immaginiamolo abbinato a una giacca spinata in tweed, accompagnata da un pantalone in velluto a coste, o come si fa coi berretti da sci, accompagnate a un cappotto più sobrio, una volta abbandonati jeans, piumini e camice in flanella (posto che non è vietato reindossare questi tre ultimi capi, magari non tutti assieme).

Ma a quanto pare, nel panorama odierno non c’è (o non c’è ancora) posto per questa forma, nè è stata azzeccata una riedizione con un nuovo materiale o almeno una nuova tonalità che potesse, sempre a livello semiotico, abbinarsi meglio al mood odierno. Stranamente non troviamo nemmeno un follower (vedi Docksteps) che si approfitti di questa falla lasciata dal produttore originale, ne nessuno stilista che scimmiotti al rialzo le forme caratterstiche del modello oggetto di questa disamina.
Il modello non è però caduto in un completo oblio: come abbiamo avuto modo di constatare, da vecchi apprezzatori di questa calzatura, c’è una ristretta nicchia di appassionati che tiene insieme un piccolo mercato di compravendite di questa calzatura sui market on-line, e non senza fatica, si riesce a rimediare un paio di questi eterni polacchini, per chi ancora apprezzi l’eleganza casual del capo e la qualità oltre tutta la media di prodotto (il vecchio slogan di Timberland era “More quality than you may ever need”) odierno, di questo e di altri marchi.

Per comprare su VINTED la versione con interno standard.
Per comprare su VINTED la versione con interno in pelo.
Per la cronaca, notizia che non tutti sanno, nemmeno tra i più entusiasti utilizzatori del marchio, Timberland nel 2011 è stata assorbita dalla multinazionale VF Corporation, già proprietaria di “The north face” a altri marchi noti del mondo “outdoor”.
Tra i pochi brand che possiamo porre a paragone della casa dell’alberello per la qualità troviamo prima di tutto Paraboot, che però sforna storicamente il mocassino da città mediato dalla forma tirolese, che in realtà non potrebbe essere indossato agevolmente nei boschi e Tricker’s, ottima calzatura inglese, ancor più aliena da qualsiasi collocazione “country”.
L’unica linea che poteva veramente misurarsi con le Timberland, pur non proponendo modelli di scarponcino alto, era la partnership nostrana tra l’allora classicissimo produttore italiano Divarese e la Sisley, nata come costola della veneta Benetton (che in quel periodo aveva peraltro assorbito il calzaturificio lombardo), e vocata proprio come Timberland, anzi probabilmente prendendo spunto proprio da questa, per un immaginario “outdoor” avventuroso e vòlto alla scoperta dei grandi spazi.
Tale partnership, o meglio l’iniezione dello stile Sisley nel contesto storico del calzaturificio di Varese fu la linea “Hudson Bay”, che richiamando proprio la sagoma del modello Paraboot, creò un mocassino rustico e dalla forte personalità e qualità, che per diversi anni in Italia fu tenuto molto in considerazione e scelto da diversi clienti che avevano il benchmark molto elevato di Timberland come elemento di confronto.

Peccato che anche in questo caso, forse dobbiamo proprio constatare che dopo l’ultima ondata di entusiasmo per il tema, contraddistinta dal film “Cliffhanger” con Sylvester Stallone, la stagione della vita all’aperto, dei boschi e dei grandi laghi, dalla metà degli anni ’90 ha perso definitivamente di appeal presso il grande pubblico, quantomeno rapportata al dialogo con le città. Oggi chi ricerca questo stile di vita e lo declina nell’abbigliamento, quasi esclusivamente in montagna a dir la verità, utilizza l’imbarazzante attrezzatura tecnica che sfigura sia nei corsi del centro cittadino, sia nei sentieri di montagna. Colori improbabili abbinati a materiali che si vuol presentare come “tecnici”, “traspiranti” e perfino “ecologici”, ma che nascondono a nostro avviso solo la cinica speculazione di rifilare al grande pubblico tonnellate di derivati del petrolio riciclati e rilavorati in Cina, che ognuno di noi mette tranquillamente a contatto con la propria pelle, in alternativa a quelli naturali che si usavano solo pochi anni fa, tra cui cuoio, lana (in tutte le sue preziose qualità), cotone, seta, lino, filati e prodotti in Italia o in altri Paesi dell’occidente di grande tradizione manifatturiera.
Unico marchio che si sia affacciato su questo fronte negli ultimi anni, per dovere di cronaca, è l’americana Pendleton (https://pendletonwoolenmills.eu/?gclid=Cj0KCQiArsefBhCbARIsAP98hXT7YZi99WP3uhJUfnyuyzZV-in007phitvtMvN8W78VUoahFQiWmesaAvt6EALw_wcB), brand che prende il nome dall’omonima città dell’Oregon e che propone la curiosa combinazione di raffinate camicie in flanella e articoli per la casa connotati dal mood yankee, oggettivamente piacevolissimi. Forse è la mancanza di sinergia con altri marchi che non permette a quest’ultimo marchio di sfondare come accadde per la prima generazione quarant’anni fa, ma per soggetti che possano scegliere e agire autonomamente, assolutamente consigliato!
Il più probabile prezzo di vendita per dei numeri a maggior diffusione, 42 o 43, intonsi, sia con interno standard, che con sherling/pile (modelli prodotti al più tardi rispettivamente nel 2019 – l’ultimissimo – e 2009 – l’ultimo prima della cessione del marchio a VF Corporation -) possono venire proposti a 200€ cadauno o anche oltre, se la persona che intende mettere in collezione una rarità del genere è disposta a investire una somma più importante.
Bibliografia:
https://www.anobii.com/it/books/timberlandia/9788804307198/01e26e2abd2b1dfcde
https://www.goodreads.com/en/book/show/313548.Timber_Country
https://www.anobii.com/it/books/trattato-di-semiotica-generale/9788893440059/01297fdbe29d8acfe5
https://www.anobii.com/it/books/il-senso-della-moda/9788806181772/013d60b83d362c3833