Alla scoperta dei Listening Bar dove incontrare audiofili o solitari in meditazione

Dopo un iniziale articolo comune, tra oriente e occidente, resici conto del grandissimo volume di informazioni che necessitava l’originaria cultura orientale in materia di “Jazz bar”, siamo arrivati alla conclusione della necessità di divisione di questi locali nelle due aree culturali dell’emisfero boreale, per dare una dovuta rappresentazione della declinazione che se ne da a oriente, maggiormente meditativa, e quella che se ne da a occidente, sempre con un maggior occhio al bilancio qualità/business, quando in Giappone il bilancio è completamente spostato sul primo elemento del rapporto, con le conseguenti frequenti chiusure negli ultimi anni.

Quello di cui parliamo qui non è il classico Jazz club con musica dal vivo, genere di locali già diffusa in tutta Europa da decenni e perciò ormai inutile da descrivere in queste pagine.

Qui facciamo riferimento a un locale pubblico in cui si possa a tutte le ore, per clienti molto diversi, poter fruire di un archivio quanto più sconfinato possibile, la collezione musicale del proprietario, suonata attraverso l’elemento che fa filtro su cos’è o non è un Listening Bar, ovvero un impianto High-End normalmente da decine di migliaia di euro. Qui il principale discrimine assieme ai numeri della collezione di vinili, che dovrebbero stare oltre ai tre zeri. Un impianto per un locale di questo genere deve avere dei tratti quasi normativi: altoparlanti da studio, possibilmente di grosse dimensioni, fatti muovere da possenti unità di amplificazione, meglio se valvolare, cui si invii un segnale da una sorgente necessariamente analogica, e qui abbiamo fatto già il cenno al paradosso nell’articolo dedicato ai Jazz Kissa: che in occidente, strizzando l’occhio al pubblico delle discoteche si fa uso pressoché sistematico dei Technics 1200, mentre in Giappone, patria di questi piatti, si usano esclusivamente vecchi giradischi europei, primi tra tutti Garrard, Thorens ed EMT (su questo argomento delle sorgenti analogiche magari prossimamente ci soffermeremo). Se in Giappone come fonti sonore si usano i classici da studio musicale (JBL, Altec Lansing, Tannoy…) già menzionati nell’altro articolo dedicato agli omologhi orientali, in Europa sta andando in uso, con la consueta esagerazione, rivolgersi a costruttori di amplificatori e altoparlanti per discoteca, magari dei migliori, ma ci rendiamo conto che si pone in atto quell’eccesso già introdotto all’epoca delle discoteche dove non si sa, o non si tiene conto che la pressione sonora misurata in decibel, è funzione logaritmica della potenza elettrica utilizzata, e che al passare da 30W per canale (più che sufficienti, specialmente se in uscita da un bel valvolare ad alta corrente) a 300, o peggio a 3000, non si ha, per fortuna peraltro, un equivalente aumento della pressione sonora, ma strumenti alla mano si potrebbe apprezzare l’aumento in decibel in termini di qualche unità. Per fortuna dicevamo sopra, perchè all’aumentare anche di poco di quest’ultimo parametro possiamo andare facilmente in area dannosa per l’udito, senza alcun beneficio peraltro nella fruizione musicale.

Con tutte le dovute differenze, il listening bar è prima di tutto anche da noi un locale in cui la musica viene ascoltata come forma d’arte. Dovrebbe essere un posto dove le persone possono rilassarsi e concentrarsi sulla musica, senza le distrazioni tipiche di un bar o di un locale notturno, anche se i più noti stanno prendendo la piega di essere una sintesi tra un ristorante e un dancefloor. La musica viene solitamente selezionata da un DJ o da un curatore musicale, e viene suonata attraverso un sistema audio di alta qualità. In occidente ha talvolta preso piede la consuetudine che l’esperienza musicale possa essere fruita anche ballando nel locale, se quello che viene suonato è un dj-set elettronico. Ma man mano che si diffonderanno queste situazioni possiamo confidare che aumenti la cultura nella tradizione del Jazz Kissa giapponese e si cerchi di trarre maggiore ispirazione dall’atmosfera intima tipica degli equivalenti orientali.

Tra i generi prevalenti anche in occidente vi è sicuramente il jazz, ma da noi un buon locale da ascolto inserisce tutte le branche non commerciali di musica contemporanea dove si possa offrire alla propria clientela degli ascolti non comuni e dove sia possibile percepire un alto livello di ricerca nello stile e nell’esecuzione: fusion, IDM, balearic, eclectic, freeform, etc… Perciò non deve stupire se alle pareti di un locale del genere si possano trovare appese copertine della leggenda del jazz Sonny Rollins accanto a quelle della leggenda dell’hard core Henry Rollins, o se a fianco a un ritratto della delicata cantautrice newyorkese Suzanne Vega, dovessimo trovare una posa provocatoria del tracotante protagonista della no-wave newyorkese Alan Vega, in una specie di ritratto di famiglia un filo surreale.

In termini di locali di punta del settore, ecco alcuni nomi che fanno tendenza in tutto il mondo:

Bonobo – Tokyo, Giappone: Questo listening bar di Tokyo è uno dei più famosi al mondo ed è noto per la sua selezione musicale di alta qualità. La musica viene selezionata da un team di DJ esperti e viene suonata attraverso un sistema di altoparlanti di alta qualità.

Brilliant Corners – Londra, Regno Unito: Questo listening bar di Londra è noto per la sua vasta collezione di vinili e per la sua attenzione alla qualità del suono. Per il raggiungimento di questa si utilizzano piatti Technics connessi al resto dall’impianto da mixer particolari e come trasduttori i classicissimi monitor “Arden” 15″, quelli che si dice (ma la Tannoy lo dimostrerebbe nel proprio sito, attraverso foto dell’epoca) fossero in utilizzo agli studi di Abbey Road ancora ai tempi dei Beatles e Pink Floyd.

Black Flamingo – Brooklyn, New York: Questo listening bar di Brooklyn è noto per la sua musica disco e house, suonata da DJ di fama internazionale. Il locale dispone di un sistema di altoparlanti di alta qualità e di un’atmosfera intima.

Bar Shiru – Oakland, California: Questo listening bar di Oakland è noto per la sua selezione di jazz e musica soul, suonata da DJ locali. Il locale offre anche una vasta selezione di vini e cocktail.

Iniziate dal secondo 50 se volete vedere immediatamente le immagini del locale

Spiritland – Londra, Regno Unito: Il locale offre cibo e bevande di alta qualità e ospita regolarmente eventi musicali dal vivo. Oltre ad essere un Listening Bar, Spiritland è anche un negozio di HI-FI, specializzato in cuffie e uno studio di registrazione. Un locale che vorremmo anche da noi.

Comprendiamo anche che il Lucky Cloud Sound System, locale che eredita la tradizione dell’idea di Sound System appartenuta alla leggenda del dancefloor David Mancuso, il quale era noto oltre che per la particolare tecnica di mixaggio (o forse di “non missaggio”) dove i pezzi vengono proposti per intero e con una breve pausa tra l’uno e l’altro, per aver impostato ai tempi del Loft un impianto hi-fi mai visto prima, e successivamente nelle sue ospitate internazionali, per presentarsi con una coppia di Linn Sondek dove si recava a suonare. In questo luogo si tengono dei party dove certamente si balla, ma si ascolta tra audiofili e appassionati – in un senso più ampio di quello attribuito a un dj-set dai soliti punter da discoteca – una selezione musicale piuttosto esclusiva.

Una menzione a parte va fatta per un Listening Bar Molto interessante: si tratta del Frissòn Roma – di Luca Quartarone, brillante titolare che dobbiamo ringraziare innanzitutto per essersi incaricato rispetto all’editore giapponese di distribuire in Italia i tre volumi del libro fotografico “Jazz Kissa” del duo giapponese Katsumasa Kusunose e Irene Yamaguchi, missione a noi molto gradita in quanto ne abbiamo acquistati due su tre da lui (mentre il primo abbiamo avuto la fortuna di reperirlo dal negozio inglese “Rare Mags“). Ma a parte questo dettaglio personalistico, va raccontato qualcosa di questo interessante locale, anch’esso in effetti piuttosto debordante da quelli che sono i comuni confini di un Jazz Cafè, ma in un verso a nostro parere in questo caso virtuoso: Quartarone ha inteso il locale come un ambiente interattivo e multidisciplinare, luogo interessante dal punto di vista musicale, ma anche sede per installazioni multimediali, e lavori inerenti alle arti visive. Il locale è talmente intriso di questi ultimi aspetti da somigliare a nostro avviso al bar della Biennale di Venezia, coi suoi colori sgargianti. Questo in virtù della partnership che è nata in questo progetto dal nostro Quartarone con Mario Ansalone, da anni gallerista a livello europeo.

Un’immagine del Listening Bar Frissòn di Roma.

Sitografia:

Articolo dal sito americano “Eaters”

I cinque migliori Listening Bar inglesi secondo il blog di Discogs

Il sito dell’eccellente Listening Bar francese Cafè Mancuso, ovviamente dedicato all’omonimo DJ

Ottimo articolo dall’e-commerce di Hi-Fi Ecoacustic sul fenomeno dei Listening Bar

L’articolo di “In Sheep’s Clothing Hi-Fi” che forse a suo tempo ha dato l’abbrivio al nostro interesse per i Listening Bar

Il mondo dei jazz kissa

Dopo diversi tentativi di cercare informazioni in italiano sull’argomento senza trovare risultati soddisfacenti, ci accingiamo a tracciare sul nostro tumblelog un panorama sui Jazz Kissa – Jazz Cafè in italiano – , realtà in cui ci siamo imbattuti nel periodo del lockdown, mentre facevamo ricerche sulle nostre passioni di sempre, musica (senza soluzione di continuità) e apparecchiature hi-fi; i due lati di una ricerca che portiamo avanti ormai da tempo immemore, avendo sempre dato maggior rilevanza alla prima, soprattutto quando possibile ascoltata dal vivo (o comunque in situazioni sociali), ma senza mancare di riconoscere al mondo delle attrezzature, oltre che l’importanza della fedeltà di riproduzione rispetto all’esecuzione originale, una sorta di disciplina: il comprare queste sorgenti e il connetterle tra loro bilanciandone le caratteristiche, atta a nobilitare l’ascolto della musica come uno degli atti più elevati compiuti del genere umano (ovviamente dal nostro punto di vista).

Il Jazz Cafè Chigusa (1933), il più antico Jazz Kissa ancora aperto.

I jazu-kissaten si sono diffusi in Giappone già prima del secondo conflitto mondiale, quando nel Paese del sol levante era nata una sorta di mania per il jazz, ovviamente importato dalla madrepatria. Proseguì la crescita di questo tipo di locali negli anni ’50 e ’60, quando il paese stava vivendo un boom economico e culturale. È ormai accertato che il primissimo Jazz Kissa in Giappone sia stato un locale chiamato “Black Bird” aperto a Tokyo nel 1929. E a seguire il Chigusa a Yokohama, nato nel 1933, che è ancora in attività. Si può presumere che il malinteso per cui questi spazi pubblici abbiano preso l’abbrivio nel dopoguerra sia dovuto al pregiudizio che la cultura giapponese sia stata occidentalizzata dall’occupazione e dal dominio degli Stati Uniti dopo il secondo conflitto mondiale.

L’apertura di un locale di questo genere, aveva uno scopo analogo a quello che avveniva in alcuni dei bar nostrani sempre nello stesso periodo, quando veniva collocata la televisione nella sala, a beneficio di tutta la clientela che non disponeva ancora di quest’apparecchiatura presso la propria abitazione. Anche qui, nei Jazz Kissa degli esordi, l’installazione di un impianto ad alta (altissima talvolta) fedeltà, con l’utilizzo frequente di componenti di importazione inglese e americana dalle dimensioni spesso colossali degli altoparlanti e dei poderosi valvolari, serviva a fornire agli avventori un’esperienza di ascolto impensabile da raggiungere nelle proprie abitazioni private. Questi locali erano spesso frequentati da appassionati di musica jazz e si caratterizzavano per un’atmosfera intima e rilassata. L’arredo veniva viceversa quasi lasciato al caso, vi si trovavano spesso vecchi mobili all’interno, lasciando quasi intendere che il gestore che apriva o prendeva in gestione un locale, lasciasse i mobili come li trovava (anche se una certa aria frugale era pur ben studiata dal profilo dell’estetica e del comfort), occupandosi solo dell’atmosfera musicale da offrire ai clienti e di inserire e successivamente incrementare una collezione di dischi più ampia possibile. Anche le consumazioni erano piuttosto limitate, offrendo molto caffè filtrato, the, sakè e whisky.

In occidente vi è stato un degnissimo omaggio a questi luoghi, salvo l’aver utilizzato un approccio figlio della nostra differente spiritualità alla fine nel creare la nostra versione, i listening bar, e aver dato un taglio a questi locali molto trendy, ma che si pone rispetto all’umiltà e alla semplicità dei Jazz Kissa originari, come a una sorta di franchising dei jazz cafè, con studio dell’arredamento interno e integrazione delle periferiche nell’arredo generale, come solo potrebbe venire in mente a una persona intrisa del nostro evoluto ma al tempo stesso discutibile concetto del bello. Ne parliamo su uno specifico articolo.

Una delle iniziative che ci sono maggiormente piaciute è quella della pubblicazione, a seguito del viaggio di un editore giapponese, tal Katsumasa Kusunose, assieme alla fotografa Irene Yamaguchi; i due hanno compiuto un tour della nazione a caccia delle realtà più gloriose e caratteristiche nel 2014/5, facendo uscire in sequenza tre volumi fotografici che potremmo definire senza timore commoventi e di cui trovate i riferimenti in bibliografia.

Spendiamo adesso due righe sui brand delle attrezzature musicali: a farla da padrona sono i pre-amplificatori e i finali Mc Intosh, mentre i trasduttori preferiti erano e sono Klipsch, Tannoy, Electro Voice, JBL e Altec Lansing. Per le apparecchiature giapponesi spuntano su tutte Onkyo e Technics, quest’ultima di fatto la scelta obbligata per i giradischi utilizzati nei Listening bar (occidente), mentre in Giappone paradossalmente si utilizzano da sempre sorgenti occidentali, su tutte Garrard, Thorens e il non plus ultra, l’EMT. Spiacevolmente, tocca osservare che uno dei marchi più gloriosi del mondo dell’elettronica giapponese, la Vestax, non è ancora entrato ne nei Jazz Kissa (posto che sarebbe difficile, dato che è nato attorno al 1977 per produrre prevalentemente attrezzatura da disk-jockey), ma nemmeno in occidente risulta ancora utilizzato, almeno nei locali più celebri. Confidiamo che prima o poi una Mixstation AA-88 entri di diritto in qualche listening bar trovando un meritato trono tra due piatti a trazione diretta.

Come al solito chiediamo ai nostri lettori di pazientare. Con la stessa dedizione discreta, serena, per quanto possibile disciplinata, come quella dei gestori dei gloriosi jazz kissa, torneremo a integrare questo articolo nei prossimi giorni e mesi, inserendo ulteriori descrizioni, riferimenti a locali leader nel settore, testi e siti in bibliografia e qualche video che possa darvi l’idea dell’atmosfera che si respira in questi locali.

Se aveste domande, sia strettamente sui Jazz Kissa, sia sulle elettroniche che sulla musica qui suonata, non esitate a contattarci, in questa materia siamo senz’altro tra i massimi esperti mondiali (tra i pochi a possedere i reportage di Kusunose in Italia, crediamo)!

Keep in touch!

In chiusura di questo articolo ci sentiamo di fare una dedica alla memoria di un musicista giapponese mancato proprio nei giorni in cui ci accingevamo a prepararlo: Ryūichi Sakamoto. Ponte musicale tra Paese del Sol Levante e occidente cui sicuramente tutti i proprietari e avventori di questi locali in Giappone saranno come noi colti da grande commozione. Musicista che per la sua storia meriterebbe nelle nostre pagine un articolo a se stante, che speriamo di poter stendere nel prossimo futuro.

Bibliografia:

L’articolo internazionale imperdibile sul tema:
https://insheepsclothinghifi.com/tokyo-jazz-kissa/

Il sito giapponese che mappa la presenza sul suolo nipponico dei Jazz Kissa:

https://jazz-kissa.jp

Due saggi del sociologo americano Ray Oldenburg circa l’utilità di ambienti sociali in territorio “neutrale” dove trovarsi tra paesani o abitanti di un certo quartiere in maniera informale, senza darsi appuntamento, costruendo relazioni magari basate su un interesse comune, dal cui titolo del primo volume, evidentemente convinti degli argomenti parecchi gestori, è stato dato il nome “The third Place” a un nutrito numero di locali in occidente:

The third place – Ray Oldenburg

The great good place – Ray Oldenburg

Il sito dove trovare – in giapponese – informazioni sui volumi fotografici sopra citati (fuori catalogo a oggi):

Gateway to jazz Kissa Vol. 1 – Katsumasa Kusunose / Irene Yamaguchi

Gateway to jazz Kissa Vol. 2 – Katsumasa Kusunose / Irene Yamaguchi

Gateway to jazz Kissa Vol. 3 – Katsumasa Kusunose / Irene Yamaguchi

Il sito del progetto Tokyo Jazz Joint, dove al termine di una ricerca di due appassionati europei, Philip Arneil, fotografo e James Catchpole (a.k.a. Mr OK Jazz), scrittore, è stato edito anche un loro libro fotografico grazie a un progetto di fundraising, in vendita in questi mesi, e a quanto pare già alla seconda edizione:

Tokyo Jazz Joints

Infine, poteva mancare un film (nello specifico un documento-film) sui Jazz Kissa?! No, e peraltro anche questo è un prodotto appena uscito, a dimostrare l’interesse attuale su questo argomento e la contemporaneità di questo articolo. Dopo varie ricerche abbiamo constatato l’indisponibilità, a oggi, almeno in Italia, però in rete c’è un video in due parti dell’intervista tra Isashi Tanaka, giornalista audio e il proprietario del locale, Shoji Sugawara sulle testine che quest’ultimo è andato nel tempo sviluppando, che andiamo a pubblicare qui sotto a beneficio dei nostri lettori. Anche questa mezz’ora (in totale tra i due video) di conversazione possiamo dire sia molto indicativa dell’approccio “jazu kissaten”!

[JAZZ Cafe BASIE Shoji Sugawara interview: The BASIE model Part 1] https://youtu.be/23gMvr_3b-E
[JAZZ Cafe BASIE Shoji Sugawara interview: The BASIE model Part 2] https://youtu.be/GRSwbJjm5Ro

Forse dopo tutta questa conversazione qualcuno di voi sarebbe curioso di vedere la testina di cui parlano, eccola, e se volete potete pure (finché sarà disponibile) comprarla su eBay:

Testina Jazz Kissa Basie

Un saluto a chi ci ha seguito fin qui!

L’ascesa dell’house-music nella Riviera romagnola

Era naturale, dopo aver raccontato la nascita del fenomeno House-Techno a Ibiza e nel nord-est italiano, pubblicare un articolo sui prodromi di questa avventura e menzionare i locali di riferimento anche su un’altra area importantissima a livello europeo per la cultura del clubbing che ha generato e anche per la la dimensione del fenomeno: la Riviera romagnola.

La celebre serie di indicazioni per i locali di Riccione

Oltre a questo, è la zona tra le tre che ho maggiormente frequentato negli anni ’90, complice la scelta in quel periodo di risiedere a Bologna, perciò è una situazione che ho conosciuto in profondità.

L’equivalente dell’accoppiata Movida/Ranch qua in Emilia fu l’Ethos-Mama Club/Diabolik’a, locali fondati da Gianluca Tantini in collaborazione con Maurizio Monti, delle pettegoliere (Sabrina Bertaccini e Mara Conti) per le relazioni pubbliche, e di Flavio Vecchi e Ricky Montanari per il sound. Questi due furono i locali ove vi fu la netta cesura tra un sound piuttosto condiviso in tutte le discoteche italiane dell’epoca (sembra incredibile oggi, ma fino ad allora si ballava Den Arrow e Spagna, qualche reminiscenza del Cosmic sound arrivata in tutte le periferie, Tracy Spencer e Jimmy Sommerville, Depeche Mode persino i Pink Floyd con The Wall, canzonette come Da-Da-Da dei Trio, Sunshine reggae dei Laid Back e amenità come queste).

Quindi immaginiamo i nuovi DJ portarci fuori non senza difficoltà da un suono senza alcuna pretesa di innovazione e di ricercatezza a uno che rimbalzava in Italia coi modi che abbiamo raccontato in altri articoli e che Flavio Vecchi ci racconta in questa preziosa intervista, ovvero andando in esplorazione a Londra (lui ma anche Cirillo e Ricky Montanari, come anche Ralf a New York) come un moderno trappeur e portando a casa il sound più innovativo proveniente dalle due sponde dell’atlantico.

Sarebbe ingiusto stabilire una graduatoria di chi abbia aperto prima, se in Veneto o in riviera romagnola, in quanto se a Jesolo si esordì al mare da metà ’89, è pur vero che i party con la stessa formula erano già stati lanciati tempo prima al Macrillo a Gallio, mentre per quanto riguarda la situazione emiliana, prima che partissero i locali sopra citati, era già da tempo che Vecchi proponeva un certo stile già al Kinki a Bologna, rimasto per anni il riferimento per la musica di ricerca e l’atmosfera “di tendenza” in città, durante la stagione invernale. Quello che possiamo dire, è che ognuna di queste due costiere ci è arrivata indipendentemente e con una propria storia.

Qui l’intervista a Flavio Vecchi pubblicata pochi giorni fa:

La differenza tra le due regioni in generale, da quello che ho esperito personalmente è ancor più profonda di questa piccola disputa su chi abbia lanciato in Italia la tendenza e attiene a un carattere generale differente, probabilmente per profonde ragioni storiche. Il Veneto è piuttosto dicotomico, nonostante abbia avuto il dominio della Serenissima, piuttosto liberale quando non libertino, per secoli, con ogni probabilità dopo l’Unità è stato soggiogato dal Vaticano avendo attecchito particolarmente bene un fenomeno definito “cattolicesimo intransigente”, e nel dopoguerra divenendo grande serbatoio per la D.C. In compenso chi si chiamava fuori dal contesto erano personaggi veramente trasgressivi, uno su tutti l’art director del Macrillo, Vasco Rigoni. In Emilia-romagna invece è storica l’opposizione al Vaticano, da molto prima dell’avvento del socialismo, e qui il fenomeno del divertimento notturno ha trovato un tessuto molto più fertile, con un territorio già da decenni predisposto; si pensi a Tantini, già da prima dell’era house coinvolto nel mondo musicale come organizzatore di concerti, ma si pensi soprattutto alla scena musicale bolognese, con Dalla, Guccini, Rossi, gli Stadio, Cremonini, Carboni, Neffa…

In effetti la mia esperienza personale mi ricorda Jesolo come patria di discoteche fantastiche, ma scenari un po’ “post-atomici”, con gente che prendeva le 12 ore come una rivisitazione delle atmosfere dei film “I guerrieri della notte” e “1997, Fuga da New York”, molto impostata e un filino snob nei confronti di chi aveva gusti più popolari (non ignari di star esercitando un atteggiamento trasgressivo rispetto alle prerogative del territorio); l’Emilia Romagna invece presentava un popolo di punter nostrani molto più rilassati (polleggiati si sarebbe detto da quelle parti), quasi ci fosse una consapevolezza che la vita notturna che stavano facendo era in fin dei conti nient’altro che l’evoluzione nel solco della propria tradizione popolare. Basta vedere in successione questi documenti di due epoche successive per capire come la “tendenza” in Romagna fosse la prosecuzione del dancing/discoteca tradizionale e ancor prima della balera, o come ci ricorda Casadei, dell’aia contadina:

Al riguardo si narra che la decisione di aprire un after-hour da parte della ballotta dell’Ethos fosse dovuta al fatto che abitualmente Monti e combriccola erano soliti tirare mattina dopo la nottata in discoteca in vari locali (tradizione mantenuta gli anni a venire, con grande afflusso di gente al Lucky Corner dopo la serata in disco e prima dell’after), ma evidentemente insoddisfatti dell’offerta, decisero di aprire loro un altro locale dove ritrovarsi con chi voleva fare più tardi, ma forse più tra cappucci e cornetti che non tanto in pista.

Per chi volesse vedere com’era il Vae Victis, una perla dalle teche RAI

Oltretutto, da questo punto di vista, sempre parlando dei due locali pionieri, Ethos Vs Movida, va detto che nonostante fossero grosso modo gli stessi i successi dell’epoca, Tricky Disco, Pacific State, Your Love, French Kiss, A Path, etc, le scalette erano declinate in modo notevolmente differente nei due club: l’Ethos con un sound più morbido e rilassato (con molto più cantato), caratteristica che con l’eccezione della piramide del Cocco sarebbe rimasta negli anni a venire; il Movida aveva un sound più duro (con molto più dub), pilotato dalle contaminazioni anarco-punk EBM/death-rock/Industrial di Leo Mas, che perfettamente allineato al carattere della clientela jesolana, abbiamo detto più rigido e molto meno gay-friendly, sarebbe rimasto cifra stilistica negli anni successivi, col Musikò, l’Asylum di Moka DJ (locale gabber), la successiva gestione Aida delle Capannine con Marco Bellini in consolle (“allievo” della Triade) e l’Exess.

Locali necessariamente da menzionare in una storia notturna della riviera romagnola sono oltre a quelli già citati: Cocoricò, Peter Pan, l’Echoes (nato dalla necessità di trasferire la situazione dalle Marche alla più libertaria Romagna, a causa degli stessi problemi avuti col Movida nel Veneto, di far accettare alla popolazione più adulta e all’amministrazione questo nuovo fenomeno), l’Ecu, il Classic Club – che ha avuto un po’ lo stesso destino del Kinki, prima locale gay, poi afterhour -, il Cellophane, il Byblos, il Pasha e gli after, il Diabolik’a (poi Vae Victis e successivamente Echoes) e Il Club dei 99 a Gradara.

In Emilia-Romagna i protagonisti erano altri rispetto ai DJ superstar del Veneto e vi fu poco scambio, salvo una residenza di Andrea Gemolotto al Cocoricò nei primi anni ’90, il tentativo messo in atto (con discreto successo tra l’altro) di chiamare un breve periodo Flavio Vecchi al Movida nel ’91 e successivamente come resident dj Massimino Lippoli, Angelino Albanese, Pier Del Vega e Stefano Noferini, di stanza normalmente in Romagna, al Musiko e al Gilda di Jesolo nelle stagioni ’92/93. Anche Leo Mas finì una stagione al Pascià la domenica sera, per il resto, in quello che a un certo punto venne definito il “divertimentificio” i big sono sempre rimasti Ralf, saldamente al comando del Titilla per circa vent’anni, Vecchi e Montanari, Ricci, i Pasta boys (Rame, Uovo, Dino Angioletti) e Ivan Iacobucci oltre al già citato Massimino.

Tanto per completare sommariamente il quadro, fuori da qui ci furono sporadicamente altri locali, nei dintorni di Ferrara Il gatto e la volpe, Il Mazoom di Sirmione, L’Alter Ego a Verona, La scala e il Kink Light a Padova e il Go! Bang a Fossalta di Portogruaro, il Kinki a Bologna, il Plastic a Milano e più tardi il Flash ad Aquileia. In centro Italia una certa importanza la ebbero il Red Zone, il Fitzcarraldo, Il Devotion (sì, il nome è preso dal pezzo dei Ten City dell’album Foundation).

Andava fatta questa “mappa” per rendere chiara l’area in cui si sviluppava il fenomeno nella penisola italiana, con un’appendice se vogliamo a Ibiza, in particolare coi locali Pacha, Amnesia, Ku (in seguito Privilege) e lo Space after hour.

Come di consueto, per coloro che arrivano alla fine degli articoli c’è il premio, in questa occasione la segnalazione di un canale Youtube del celebre New York Bar! Non si capisce se il nickname “Fabjazzlive” si riferisca a Fabio S, art director del primo after-tea d’Italia, un successo partito nell’autunno ’95 sui colli bolognesi al Vertigo, con Ivan Jacobucci in consolle supportato da Marco Spinelli, in cui confluivano tutto il pubblico e tutti i pr delle altre situazioni del sabato sera emiliano e oltre; locale in cui si ricreò, forse per l’ultima volta, quel clima particolare in cui chi c’è, sente di trovarsi all’interno di un momento magico, un po’ come all’epoca il Movida e l’Ethos. Qui è durato il tempo di una stagione: il successivo trasferimento estivo al Pascià di Riccione non è stato memorabile, mentre la successiva stagione invernale al Ruvido è stata purtroppo proprio fallimentare. L’estate successiva a La Villa Delle Rose, sempre in riviera romagnola nemmeno, poi so solo che il brand “New York Bar” è stato trasferito a Milano per qualche stagione, indice dell’hype raggiunto in tutto il nord-Italia, ma da allora in poi non l’ho più seguito personalmente. In questa pagina Youtube ci sono molti filmati della prima stagione, tra cui oltre alle pregevoli ospitate di Barbara Tucker e Ce Ce Rogers (ricordo come fosse ora la sua versione di “Promise Land”) si vede, in quello che pubblico, uno spezzone della chiusura della prima stagione, oltre a Ettore del Docshow in apertura (allora p.r. proprio all’after-tea), una delle scene più memorabili: in quella serata, caratterizzata da un’eccitazione palpabile, due donne che ballavano sui cubi davanti alla consolle, esibivano continuamente il seno, costringendo Fabio S ad andare di persona a ricoprirle, tra le risate generali. Uno dei tanti indici dell’atmosfera confidenziale che si era creata in quella stagione irripetibile tra le mura del Vertigo:

Bibliografia:

An history of Cocoricò (Riccione) in English

Infine, il docufilm a firma di Luca Santarelli che dovrebbe dare il definitivo racconto di quest’epopea:

L’alchimia delle collaborazioni e del sampling.

In questo articolo trattiamo una diversa sfumatura di quanto già sviscerato in quello riguardante le contaminazioni nell’arte, volendo evidenziare quel particolare fascino che hanno i due fenomeni citati nel titolo, ovvero collaborazioni tra artisti apparentemente di diversa natura che escono con un progetto comune e il differente caso del sampling, ovvero quasi di un “furto”, di un saccheggio di canzoni o parole o suoni già esistenti al fine di infarcire un nuovo soggetto, una nuova track che in alcuni casi suona perfettamente armonica, in altri invece, volutamente, diviene una sorta di Frankenstein musicale, sempre però piacevole e ben riuscito. Non a caso la sampladelia nella colorita definizione di Simon Reynolds è una sorta di  “zombie music: parti sonore, riff, parti cantate vivisezionate dalla traccia originale e galvanizzati nel senso originale del termine (ovvero migliorati dalla loro condizione originale, magari all’interno di un contesto totalmente inoffensivo, attraverso un sottile riporto di materiale superficiale che rende nella nuova versione il materiale potentissimo), suoni morti rianimati come uno zombie, un corpo haitiano portato indietro a una sorta di semi-robot da uno stregone voodoo (il produttore), che usa i sample come degli schiavi”.

Prima di addentrarci a fondo nella materia musicale, in questo Frankenstein dell’arte cito il caso, cui sono al bandolo grazie al Paul Miller citato nella Bibliografia riportata al termine dell’articolo. E’ stato proprio ascoltando la sua conferenza al Google Headquarter in California in occasione della presentazione del suo libro “Sound Unbound”, riguardante proprio la materia del sampling, ho notato che alle sue spalle aveva un’immagine stranamente familiare, del tutto simile a quella utilizzata nella grafica del disco d’esordio dei Cybotron, il leggendario “Enter”. Tale immagine era già stata utilizzata dallo stesso autore nelle tournee del suo testo precedente, “Rythm Science”, in entrambi i casi a Spooky Dj voleva far notare il nesso tra tecnologie, arte e saccheggio della produzione altrui e successiva rielaborazione in un nuovo lavoro.

DJ Spooky

L’opera era il risultato dello sviluppo di un’apparecchiatura inventata dallo scienziato e medico Étienne-Jules Marey a fine ‘800 per poter approfondire i suoi studi sul movimento del corpo umano e animale:

DJ Spooky introducing Rebirth of a Nation

tale tipo di risultati rimandano innanzitutto alla corrente del futurismo, che in opere come “Rissa in Galleria” o “La città che sale”, o ancor meglio nel classico di Boccioni “Dinamismo di un ciclista”, visibile al Guggenheim di Venezia, evidenziano il debito a questo tipo di ricerca, ma anche al più recente lavoro di Jamie Putnam per la copertina del trio di Detroit del 1983, che rimanda in maniera evidente anch’esso al lavoro di Marey attraverso la scomposizione dell’immagine in una sorta di pixel primordiali:

Cybotron_enter

Secondo una definizione di Artur Kroker e Michael Weinstein, la sampladelia è  manifestazione di un certo archivismo della cultura Cyber-punk, che prende gli ultimi ottant’anni di suoni registrati e li ri-contestualizza, li ricondiziona e li ri-fonde in una sorta di morphing dove un suono si mescola con un altro e il risultato finale è un nuovo soggetto.

I primi campioni si possono far risalire agli MC dei primi hit rap, come non ricordare al riguardo il celebre campionamento di “Good times” degli Chic ad opera della Sugarhill Gang nella mitica “Rapper’s delight”:

Un certo utilizzo della musica si faceva già nel dub utilizzato nei sound-system giamaicani, dove spesso il lato-b dei vinili lì prodotti era la versione solo strumentale della canzone presente nel fronte, ottima per essere mixata e ballata.

Il “Vs” invece è il fenomeno per il quale si fa una collaborazione per contrasto, dove un artista “alto” collabora con uno di strada, o un artista bianco (nell’accezione che è armato di chitarre) dialoga con uno nero (notare che i musicisti neri, con l’eccezione del meticcio Hendrix, non si lanciano pressoché mai nelle distorsioni chitarristiche tipiche del genere hard rock), o uno dalle linee più soft si “confronta” con un altro o una formazione dai suoni più duri.

Caso di scuola a questo titolo il pezzo “Walk this Way” tra Run DMC e Aerosmith; da quel momento il mix tra rap e hard rock si sarebbe definito crossover:

Ognuna di queste due pratiche crea una sorta di nuove ‘sinapsi’ nell’intelligenza musicale planetaria, permettendone la crescita del corpo universale.

Tante sono le linee d’origine del fenomeno; forse andremo a svilupparle in futuro. Qui ci piacerebbe più che altro fare un elenco il più possibile sintetico dei più eclatanti frutti del Vs e del sampling. Se vogliamo il primo in musica è un elemento quasi necessario, se il Vs (dal latino versus ovviamente, l’uso è lo stesso che se ne fa nella boxe o nel wrestling) è la spinta verso la collaborazione più estemporanea e originale, una minima collaborazione tocca a tutti, anche a quei musicisti che si fregiano di fare uscire l’album a loro nome: come sarebbe stata la carriera di Bruce Springsteen senza la E-street band, Lou Reed è stato certamente un gigante, ma è cresciuto nei Velvet Underground e sopratutto nella Factory di Andy Warhol, Micheal Jackson deve molto, nel bene e nel male, a suo padre e ai suoi fratelli, il resto a Quincy Jones, il suo produttore, senza il quale difficilmente sarebbe diventato il divo del pop, idem Madonna che pare una “self-made-woman”, ma dietro le spalle agli esordi ha avuto personaggi del calibro di Nile Rodgers. Persino quell’incredibile personaggio di David Peel (mancato nell’aprile del 2017 nell’indifferenza generale, quando lui era assieme a Maharishi Mahesh Yogi uno dei guru di John Lennon), all’origine un one-man-band senza fissa dimora, si dovette comunque fare assistere da Peter Siegel per registrare il suo imprevisto album d’esordio “Have a Marijuana” e proprio da John Lennon e Yoko Ono per il successivo “The Pope Smokes Dope”; inoltre non disdegnava di accompagnarsi con altri artisti, normalmente dei freak come lui, come in questo caso in cui duetta con Dionna Dal Monte in una performance irresistibile:

Andando ora al nocciolo delle commistioni tra collaborazioni e utilizzo dei campionamenti, partiamo in questa rassegna:

Il protagonista del jazz e del fusion Herbie Hancock collabora nel lontano 1983 con il poliedrico Bill Laswell proveniente dalla No-wave newyorkese e l’MC Grandmixer D.ST per uno dei primi “Frankenstein” del genere, la mitica rockit:

Poco tempo dopo inizia l’avventura di un altro dei più interessanti fenomeni del genere: il produttore Trevor Horn (già negli Yes e nei Buggles), addirittura un giornalista musicale in questo caso, Paul Morley e i musicisti J. J. Jeczalik, Anne Dudley e Gary Langan danno vita agli Art of Noise,  dal nome del manifesto musicale del futurista Luigi Russolo, diventando tra i pionieri del fenomeno del campionamento e di tutto il modo di costruire musica di lì in poi. In questo articolo, il pezzo che ci sembra più adatto da inserire è la leggendaria Paranomia, ma dovremmo ricordare per l’importanza all’interno dell’argomento che andiamo trattando, una lunga serie di brani, tra cui impossibile non citare almeno “Moments in love” e “Beatbox”.

Dì lì a poco, nel 1987, il pezzo che fa deflagrare definitivamente “l’arte del campionamento”, la leggendaria “Pump Up The Volume” dei M|A|R|R|S, anch’esso un ensemble molto particolare, formato dagli A.R. Kane e dai Colourbox, con in più la collaborazione di due DJ, Chris “C.J.” Mackintosh e Dave Dorrel. Il brano è, come sottolineato anche dal video, un vero e proprio caleidoscopio di campioni musicali, che possiamo segnalare presi da James Brown a Cool & the Gang, da Erci B. e Rakim a Whistle (in tutto sono stati contati dieci sample da altrettanti artisti e brani); il patrocinio del progetto viene ascritto al produttore Ivo Watts-Russell:

Non una collaborazione occasionale questa di Lindy Layton coi Beats International, che anzi era componente fissa del gruppo, ci sembra dare il là a tutta una serie di progetti da lì in poi (vedasi Lamb, Portished, Tricky, gran maestro di duetti e contaminazioni tra voci superfemminili e suoni digitali), aggiunge la sua voce soul al loro suono basico, batteria, linea di basso e pochi effetti:

In questa misconosciuta collaborazione tra i super-tecnologici 808 State e i classici del reggae, gli inglesi UB40, c’è proprio tutto quanto fa al caso nostro, un bel “Vs” eterogeneo tra gruppi di generi musicali apparentemente inconciliabili e inoltre nella canzone si può cogliere il campione da “The model” dei Kraftwerk:

Una giovanissima e allora sconosciuta Bjork Gudmundsdottir mette a disposizione la sua versatile voce, sempre per una collaborazione con gli 808 State, nell’album ex:el, nel quale in totale si contano due tracce con la cantante islandese:

Il famigerato e inedito “Vs” tra il musicista d’avanguardia Jon Hassel e gli (ancora loro) 808 State:

Poi, non fosse altro che per vederlo una volta in più, segnaliamo come il capolavoro dei Massive Attack (fin dall’epoca del Wild Bunch una sorta di collettivo aperto a elementi di ogni tipo) “Unfinished sympathy” prenda a prestito l’urletto femminile originariamente inserito nella Planetary Citizen degli impronunciabili Mahavishnu Orchestra e John McLaughlin, pubblicata quindici anni prima:

A chiusura, almeno temporanea della serie di collaborazioni e campionamenti, ci piace inserire questa traccia, dove in verità gli Orb si sono all’epoca appropriati indebitamente di un’intervista di Rickie lee jones, nella quale la leggendaria cantante americana, probabilmente in quel momento vittima di un brutto raffreddore, raccontava della sua infanzia, di come dalla sua casa vedesse delle meravigliose, morbide nuvolette; inserendo questo campione vocale all’interno di una serie di suoni anch’essi molto “sampladelici” ne è venuto fuori un pezzo che è un vero mito:

Infine un piccolo cenno alle tecnologie che hanno permesso lo sviluppo di tutto quanto accaduto all’interno della penultima decade dello scorso secolo, “sintetizzato” è proprio il caso di dire, all’interno di questo articolo: senza il Synclavier della New England Digital e il più economico e quindi più diffuso Fairlight CMI dell’omonima azienda, questa e altre mille storie non potrebbero essere stata raccontate!

Chiudiamo l’articolo con questo video che testimonia il nostro sogno di gioventù di stare dietro a queste consolle in qualità di produttori e/o ingegneri del suono:

Bibliografia:

Rhythm Science – Paul D. Miller Aka Spooky DJ that subliminal kid – MIT Press LTD

Sound Unbound – Paul D. Miller a.k.a. Spooky DJ – Edizione inglese: MIT Press LTD, edizione italiana: Arcana Editrice

Storia del Rock voll. 1-6 – Piero Scaruffi – Arcana Editrice

Energy Flash – Simon Reynolds – Arcana Edizioni

Hip-Hop raised me – DJ Semtex – Rizzoli

Remixing – Viaggi nella musica del XXI secolo – DJ Rupture – EDT

Daniele Baldelli e il sound Cosmic!

(If English is your first language and you could translate this text, please contact me)

Di Baldelli e del locale più famoso in cui lavorò, mi parlò all’epoca dell’allora leva obbligatoria un mio commilitone, il quale, oltre a una fornitura settimanale di recioto dei colli veronesi di sua produzione e pure di sigarette, mi portava le cassette (dall’audio rovinatissimo) del locale e mi raccontava notizie su questa discoteca, certamente riferitegli da amici più grandi.

Fu una storia che mi rimase impressa per le analogie di quella del Movida, con tutto l’hype che si era creato attorno alla discoteca jesolana durante la mia adolescenza, lo ritenevo un locale senza precedenti e mai avrei pensato che in effetti altri luoghi, senza alcuna connessione con quello veneziano, avessero peraltro un decennio prima creato attorno alla consolle e alla pista da ballo una stessa aurea di leggenda.

E’ incredibile il fatto che proprio oggi stavo pensando a questi racconti del mio compagno di naja e che questa sera in uno stupefacente caso di sincronicità junghiana mi trovo nella bacheca di Facebook un post che parla di una raccolta dei cinquanta pezzi preferiti da Baldelli stesso dalla selezione del locale. Anche per questo motivo lo condividerò con voi.

Alla luce di quanto esposto sopra, potevo aver dato tanto spazio al Movida in questo tumblelog senza dare la giusta evidenza a quest’altro locale altrettanto mitico.

Baldelli

La leggenda di questa discoteca situata dalle parti del lago di Garda iniza nei tardi anni ’70 quando Baldelli ne diventa resident dj e comincia a proporre il proprio stile di mixaggio sperimentale. Questo stile combinava un range di generi estrememente ampio, dall’elettronica europea al reggae, dal synth pop al folk africano, spesso suonato a velocità differenti da quella originale con l’introduzione di effetti e drum machine. Lo stile internazionale e ipnotico di Baldelli creò le basi del Cosmic sound, un movimento che si situò come separato dalla scena Italo-disco.

Baldelli è ancora sulla scena, suonando i suoi mix esotici in giro per il mondo e allo stesso tempo portando il suo personale marchio di “altra” world music. Solo la scorsa settimana ha prodotto in coppia con Marco Dionigi una rilavorazione  retro-futuristica di “Ancora tu” di Róisín Murphy, ex cantante leader dei Moloko:

Fonte: The Vinyl factory

Questa collaborazione non è casuale: è lo stesso Dionigi che ci spiega come la sua stessa carriera sia avvenuta dall’opera di Baldelli per ‘gemmazione’! Ascoltando i suoi ritmi “cosmici” da ragazzo ha sviluppato quel gusto per il battito lento e sincopato che lo contraddistingue da sempre e che è diventato il suo marchio di fabbrica, una cifra stilistica pressochè unica, anche perché molte delle tracce che suona sono anche da lui prodotte.

Conseguenza quasi ineluttabile l’inizio di un sodalizio con lo stesso Baldelli, iniziato oltre vent’anni fa e mai interrotto!

In chiusura un breve documentario sul Cosmic:

Le (mie) tre divine!

Non si tratta di Gloria Gaynor, Donna Summer e Diana Ross (che assieme a Chaka Khan potrebbero meritare un approfondimento in futuro), e fin dal titolo si capisce che questo articolo, come tutto il blog, non ha alcun carattere enciclopedico, certo è che comunque deriva dall’esperienza di una vita e nello specifico da migliaia di ascolti musicali, perciò è il risultato di un analisi di cui, se già hai letto altre pagine di questo tumblelog, e stai continuando a leggerle, sai che ci si può fidare!

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Contaminazioni nell’arte

“è la tecnologia sposata con le arti, sposata con l’umanistica che porta ai risultati che fanno battere il nostro cuore”

Steve Jobs

Spesso siamo portati a considerare un’opera artistica come qualcosa che sia il risultato estemporaneo del lavoro di un certo autore, o semplicemente non ci poniamo il problema. Talvolta però è interessante scoprire qualche retroscena, in quanto ci può far comprendere come un progetto appaia così azzeccato, da dove prende tutta la potenza e quanta densità di significato via sia dietro quello che ascoltiamo nel caso di un pezzo musicale o che vediamo nel caso di un’opera d’arte visuale, che ne giustifica l’apprezzamento di un pubblico ampio (almeno nella propria nicchia di genere) e lo rende resistente alle ingiurie del tempo. Facciamo il caso in questo articolo di un paio di brani industrial più una hit da discoteca che hanno sempre avuto su di noi un carico di suggestione particolare, “Union Carbide” dei Revolting Cocks, “Beyond Belief” dei Cassandra Complex e “Neue Dimensionen” di Techno Bert.

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