Alla scoperta dei Listening Bar dove incontrare audiofili o solitari in meditazione

Dopo un iniziale articolo comune, tra oriente e occidente, resici conto del grandissimo volume di informazioni che necessitava l’originaria cultura orientale in materia di “Jazz bar”, siamo arrivati alla conclusione della necessità di divisione di questi locali nelle due aree culturali dell’emisfero boreale, per dare una dovuta rappresentazione della declinazione che se ne da a oriente, maggiormente meditativa, e quella che se ne da a occidente, sempre con un maggior occhio al bilancio qualità/business, quando in Giappone il bilancio è completamente spostato sul primo elemento del rapporto, con le conseguenti frequenti chiusure negli ultimi anni.

Quello di cui parliamo qui non è il classico Jazz club con musica dal vivo, genere di locali già diffusa in tutta Europa da decenni e perciò ormai inutile da descrivere in queste pagine.

Qui facciamo riferimento a un locale pubblico in cui si possa a tutte le ore, per clienti molto diversi, poter fruire di un archivio quanto più sconfinato possibile, la collezione musicale del proprietario, suonata attraverso l’elemento che fa filtro su cos’è o non è un Listening Bar, ovvero un impianto High-End normalmente da decine di migliaia di euro. Qui il principale discrimine assieme ai numeri della collezione di vinili, che dovrebbero stare oltre ai tre zeri. Un impianto per un locale di questo genere deve avere dei tratti quasi normativi: altoparlanti da studio, possibilmente di grosse dimensioni, fatti muovere da possenti unità di amplificazione, meglio se valvolare, cui si invii un segnale da una sorgente necessariamente analogica, e qui abbiamo fatto già il cenno al paradosso nell’articolo dedicato ai Jazz Kissa: che in occidente, strizzando l’occhio al pubblico delle discoteche si fa uso pressoché sistematico dei Technics 1200, mentre in Giappone, patria di questi piatti, si usano esclusivamente vecchi giradischi europei, primi tra tutti Garrard, Thorens ed EMT (su questo argomento delle sorgenti analogiche magari prossimamente ci soffermeremo). Se in Giappone come fonti sonore si usano i classici da studio musicale (JBL, Altec Lansing, Tannoy…) già menzionati nell’altro articolo dedicato agli omologhi orientali, in Europa sta andando in uso, con la consueta esagerazione, rivolgersi a costruttori di amplificatori e altoparlanti per discoteca, magari dei migliori, ma ci rendiamo conto che si pone in atto quell’eccesso già introdotto all’epoca delle discoteche dove non si sa, o non si tiene conto che la pressione sonora misurata in decibel, è funzione logaritmica della potenza elettrica utilizzata, e che al passare da 30W per canale (più che sufficienti, specialmente se in uscita da un bel valvolare ad alta corrente) a 300, o peggio a 3000, non si ha, per fortuna peraltro, un equivalente aumento della pressione sonora, ma strumenti alla mano si potrebbe apprezzare l’aumento in decibel in termini di qualche unità. Per fortuna dicevamo sopra, perchè all’aumentare anche di poco di quest’ultimo parametro possiamo andare facilmente in area dannosa per l’udito, senza alcun beneficio peraltro nella fruizione musicale.

Con tutte le dovute differenze, il listening bar è prima di tutto anche da noi un locale in cui la musica viene ascoltata come forma d’arte. Dovrebbe essere un posto dove le persone possono rilassarsi e concentrarsi sulla musica, senza le distrazioni tipiche di un bar o di un locale notturno, anche se i più noti stanno prendendo la piega di essere una sintesi tra un ristorante e un dancefloor. La musica viene solitamente selezionata da un DJ o da un curatore musicale, e viene suonata attraverso un sistema audio di alta qualità. In occidente ha talvolta preso piede la consuetudine che l’esperienza musicale possa essere fruita anche ballando nel locale, se quello che viene suonato è un dj-set elettronico. Ma man mano che si diffonderanno queste situazioni possiamo confidare che aumenti la cultura nella tradizione del Jazz Kissa giapponese e si cerchi di trarre maggiore ispirazione dall’atmosfera intima tipica degli equivalenti orientali.

Tra i generi prevalenti anche in occidente vi è sicuramente il jazz, ma da noi un buon locale da ascolto inserisce tutte le branche non commerciali di musica contemporanea dove si possa offrire alla propria clientela degli ascolti non comuni e dove sia possibile percepire un alto livello di ricerca nello stile e nell’esecuzione: fusion, IDM, balearic, eclectic, freeform, etc… Perciò non deve stupire se alle pareti di un locale del genere si possano trovare appese copertine della leggenda del jazz Sonny Rollins accanto a quelle della leggenda dell’hard core Henry Rollins, o se a fianco a un ritratto della delicata cantautrice newyorkese Suzanne Vega, dovessimo trovare una posa provocatoria del tracotante protagonista della no-wave newyorkese Alan Vega, in una specie di ritratto di famiglia un filo surreale.

In termini di locali di punta del settore, ecco alcuni nomi che fanno tendenza in tutto il mondo:

Bonobo – Tokyo, Giappone: Questo listening bar di Tokyo è uno dei più famosi al mondo ed è noto per la sua selezione musicale di alta qualità. La musica viene selezionata da un team di DJ esperti e viene suonata attraverso un sistema di altoparlanti di alta qualità.

Brilliant Corners – Londra, Regno Unito: Questo listening bar di Londra è noto per la sua vasta collezione di vinili e per la sua attenzione alla qualità del suono. Per il raggiungimento di questa si utilizzano piatti Technics connessi al resto dall’impianto da mixer particolari e come trasduttori i classicissimi monitor “Arden” 15″, quelli che si dice (ma la Tannoy lo dimostrerebbe nel proprio sito, attraverso foto dell’epoca) fossero in utilizzo agli studi di Abbey Road ancora ai tempi dei Beatles e Pink Floyd.

Black Flamingo – Brooklyn, New York: Questo listening bar di Brooklyn è noto per la sua musica disco e house, suonata da DJ di fama internazionale. Il locale dispone di un sistema di altoparlanti di alta qualità e di un’atmosfera intima.

Bar Shiru – Oakland, California: Questo listening bar di Oakland è noto per la sua selezione di jazz e musica soul, suonata da DJ locali. Il locale offre anche una vasta selezione di vini e cocktail.

Iniziate dal secondo 50 se volete vedere immediatamente le immagini del locale

Spiritland – Londra, Regno Unito: Il locale offre cibo e bevande di alta qualità e ospita regolarmente eventi musicali dal vivo. Oltre ad essere un Listening Bar, Spiritland è anche un negozio di HI-FI, specializzato in cuffie e uno studio di registrazione. Un locale che vorremmo anche da noi.

Comprendiamo anche che il Lucky Cloud Sound System, locale che eredita la tradizione dell’idea di Sound System appartenuta alla leggenda del dancefloor David Mancuso, il quale era noto oltre che per la particolare tecnica di mixaggio (o forse di “non missaggio”) dove i pezzi vengono proposti per intero e con una breve pausa tra l’uno e l’altro, per aver impostato ai tempi del Loft un impianto hi-fi mai visto prima, e successivamente nelle sue ospitate internazionali, per presentarsi con una coppia di Linn Sondek dove si recava a suonare. In questo luogo si tengono dei party dove certamente si balla, ma si ascolta tra audiofili e appassionati – in un senso più ampio di quello attribuito a un dj-set dai soliti punter da discoteca – una selezione musicale piuttosto esclusiva.

Una menzione a parte va fatta per un Listening Bar Molto interessante: si tratta del Frissòn Roma – di Luca Quartarone, brillante titolare che dobbiamo ringraziare innanzitutto per essersi incaricato rispetto all’editore giapponese di distribuire in Italia i tre volumi del libro fotografico “Jazz Kissa” del duo giapponese Katsumasa Kusunose e Irene Yamaguchi, missione a noi molto gradita in quanto ne abbiamo acquistati due su tre da lui (mentre il primo abbiamo avuto la fortuna di reperirlo dal negozio inglese “Rare Mags“). Ma a parte questo dettaglio personalistico, va raccontato qualcosa di questo interessante locale, anch’esso in effetti piuttosto debordante da quelli che sono i comuni confini di un Jazz Cafè, ma in un verso a nostro parere in questo caso virtuoso: Quartarone ha inteso il locale come un ambiente interattivo e multidisciplinare, luogo interessante dal punto di vista musicale, ma anche sede per installazioni multimediali, e lavori inerenti alle arti visive. Il locale è talmente intriso di questi ultimi aspetti da somigliare a nostro avviso al bar della Biennale di Venezia, coi suoi colori sgargianti. Questo in virtù della partnership che è nata in questo progetto dal nostro Quartarone con Mario Ansalone, da anni gallerista a livello europeo.

Un’immagine del Listening Bar Frissòn di Roma.

Sitografia:

Articolo dal sito americano “Eaters”

I cinque migliori Listening Bar inglesi secondo il blog di Discogs

Il sito dell’eccellente Listening Bar francese Cafè Mancuso, ovviamente dedicato all’omonimo DJ

Ottimo articolo dall’e-commerce di Hi-Fi Ecoacustic sul fenomeno dei Listening Bar

L’articolo di “In Sheep’s Clothing Hi-Fi” che forse a suo tempo ha dato l’abbrivio al nostro interesse per i Listening Bar

Il mondo dei jazz kissa

Dopo diversi tentativi di cercare informazioni in italiano sull’argomento senza trovare risultati soddisfacenti, ci accingiamo a tracciare sul nostro tumblelog un panorama sui Jazz Kissa – Jazz Cafè in italiano – , realtà in cui ci siamo imbattuti nel periodo del lockdown, mentre facevamo ricerche sulle nostre passioni di sempre, musica (senza soluzione di continuità) e apparecchiature hi-fi; i due lati di una ricerca che portiamo avanti ormai da tempo immemore, avendo sempre dato maggior rilevanza alla prima, soprattutto quando possibile ascoltata dal vivo (o comunque in situazioni sociali), ma senza mancare di riconoscere al mondo delle attrezzature, oltre che l’importanza della fedeltà di riproduzione rispetto all’esecuzione originale, una sorta di disciplina: il comprare queste sorgenti e il connetterle tra loro bilanciandone le caratteristiche, atta a nobilitare l’ascolto della musica come uno degli atti più elevati compiuti del genere umano (ovviamente dal nostro punto di vista).

Il Jazz Cafè Chigusa (1933), il più antico Jazz Kissa ancora aperto.

I jazu-kissaten si sono diffusi in Giappone già prima del secondo conflitto mondiale, quando nel Paese del sol levante era nata una sorta di mania per il jazz, ovviamente importato dalla madrepatria. Proseguì la crescita di questo tipo di locali negli anni ’50 e ’60, quando il paese stava vivendo un boom economico e culturale. È ormai accertato che il primissimo Jazz Kissa in Giappone sia stato un locale chiamato “Black Bird” aperto a Tokyo nel 1929. E a seguire il Chigusa a Yokohama, nato nel 1933, che è ancora in attività. Si può presumere che il malinteso per cui questi spazi pubblici abbiano preso l’abbrivio nel dopoguerra sia dovuto al pregiudizio che la cultura giapponese sia stata occidentalizzata dall’occupazione e dal dominio degli Stati Uniti dopo il secondo conflitto mondiale.

L’apertura di un locale di questo genere, aveva uno scopo analogo a quello che avveniva in alcuni dei bar nostrani sempre nello stesso periodo, quando veniva collocata la televisione nella sala, a beneficio di tutta la clientela che non disponeva ancora di quest’apparecchiatura presso la propria abitazione. Anche qui, nei Jazz Kissa degli esordi, l’installazione di un impianto ad alta (altissima talvolta) fedeltà, con l’utilizzo frequente di componenti di importazione inglese e americana dalle dimensioni spesso colossali degli altoparlanti e dei poderosi valvolari, serviva a fornire agli avventori un’esperienza di ascolto impensabile da raggiungere nelle proprie abitazioni private. Questi locali erano spesso frequentati da appassionati di musica jazz e si caratterizzavano per un’atmosfera intima e rilassata. L’arredo veniva viceversa quasi lasciato al caso, vi si trovavano spesso vecchi mobili all’interno, lasciando quasi intendere che il gestore che apriva o prendeva in gestione un locale, lasciasse i mobili come li trovava (anche se una certa aria frugale era pur ben studiata dal profilo dell’estetica e del comfort), occupandosi solo dell’atmosfera musicale da offrire ai clienti e di inserire e successivamente incrementare una collezione di dischi più ampia possibile. Anche le consumazioni erano piuttosto limitate, offrendo molto caffè filtrato, the, sakè e whisky.

In occidente vi è stato un degnissimo omaggio a questi luoghi, salvo l’aver utilizzato un approccio figlio della nostra differente spiritualità alla fine nel creare la nostra versione, i listening bar, e aver dato un taglio a questi locali molto trendy, ma che si pone rispetto all’umiltà e alla semplicità dei Jazz Kissa originari, come a una sorta di franchising dei jazz cafè, con studio dell’arredamento interno e integrazione delle periferiche nell’arredo generale, come solo potrebbe venire in mente a una persona intrisa del nostro evoluto ma al tempo stesso discutibile concetto del bello. Ne parliamo su uno specifico articolo.

Una delle iniziative che ci sono maggiormente piaciute è quella della pubblicazione, a seguito del viaggio di un editore giapponese, tal Katsumasa Kusunose, assieme alla fotografa Irene Yamaguchi; i due hanno compiuto un tour della nazione a caccia delle realtà più gloriose e caratteristiche nel 2014/5, facendo uscire in sequenza tre volumi fotografici che potremmo definire senza timore commoventi e di cui trovate i riferimenti in bibliografia.

Spendiamo adesso due righe sui brand delle attrezzature musicali: a farla da padrona sono i pre-amplificatori e i finali Mc Intosh, mentre i trasduttori preferiti erano e sono Klipsch, Tannoy, Electro Voice, JBL e Altec Lansing. Per le apparecchiature giapponesi spuntano su tutte Onkyo e Technics, quest’ultima di fatto la scelta obbligata per i giradischi utilizzati nei Listening bar (occidente), mentre in Giappone paradossalmente si utilizzano da sempre sorgenti occidentali, su tutte Garrard, Thorens e il non plus ultra, l’EMT. Spiacevolmente, tocca osservare che uno dei marchi più gloriosi del mondo dell’elettronica giapponese, la Vestax, non è ancora entrato ne nei Jazz Kissa (posto che sarebbe difficile, dato che è nato attorno al 1977 per produrre prevalentemente attrezzatura da disk-jockey), ma nemmeno in occidente risulta ancora utilizzato, almeno nei locali più celebri. Confidiamo che prima o poi una Mixstation AA-88 entri di diritto in qualche listening bar trovando un meritato trono tra due piatti a trazione diretta.

Come al solito chiediamo ai nostri lettori di pazientare. Con la stessa dedizione discreta, serena, per quanto possibile disciplinata, come quella dei gestori dei gloriosi jazz kissa, torneremo a integrare questo articolo nei prossimi giorni e mesi, inserendo ulteriori descrizioni, riferimenti a locali leader nel settore, testi e siti in bibliografia e qualche video che possa darvi l’idea dell’atmosfera che si respira in questi locali.

Se aveste domande, sia strettamente sui Jazz Kissa, sia sulle elettroniche che sulla musica qui suonata, non esitate a contattarci, in questa materia siamo senz’altro tra i massimi esperti mondiali (tra i pochi a possedere i reportage di Kusunose in Italia, crediamo)!

Keep in touch!

In chiusura di questo articolo ci sentiamo di fare una dedica alla memoria di un musicista giapponese mancato proprio nei giorni in cui ci accingevamo a prepararlo: Ryūichi Sakamoto. Ponte musicale tra Paese del Sol Levante e occidente cui sicuramente tutti i proprietari e avventori di questi locali in Giappone saranno come noi colti da grande commozione. Musicista che per la sua storia meriterebbe nelle nostre pagine un articolo a se stante, che speriamo di poter stendere nel prossimo futuro.

Bibliografia:

L’articolo internazionale imperdibile sul tema:
https://insheepsclothinghifi.com/tokyo-jazz-kissa/

Il sito giapponese che mappa la presenza sul suolo nipponico dei Jazz Kissa:

https://jazz-kissa.jp

Due saggi del sociologo americano Ray Oldenburg circa l’utilità di ambienti sociali in territorio “neutrale” dove trovarsi tra paesani o abitanti di un certo quartiere in maniera informale, senza darsi appuntamento, costruendo relazioni magari basate su un interesse comune, dal cui titolo del primo volume, evidentemente convinti degli argomenti parecchi gestori, è stato dato il nome “The third Place” a un nutrito numero di locali in occidente:

The third place – Ray Oldenburg

The great good place – Ray Oldenburg

Il sito dove trovare – in giapponese – informazioni sui volumi fotografici sopra citati (fuori catalogo a oggi):

Gateway to jazz Kissa Vol. 1 – Katsumasa Kusunose / Irene Yamaguchi

Gateway to jazz Kissa Vol. 2 – Katsumasa Kusunose / Irene Yamaguchi

Gateway to jazz Kissa Vol. 3 – Katsumasa Kusunose / Irene Yamaguchi

Il sito del progetto Tokyo Jazz Joint, dove al termine di una ricerca di due appassionati europei, Philip Arneil, fotografo e James Catchpole (a.k.a. Mr OK Jazz), scrittore, è stato edito anche un loro libro fotografico grazie a un progetto di fundraising, in vendita in questi mesi, e a quanto pare già alla seconda edizione:

Tokyo Jazz Joints

Infine, poteva mancare un film (nello specifico un documento-film) sui Jazz Kissa?! No, e peraltro anche questo è un prodotto appena uscito, a dimostrare l’interesse attuale su questo argomento e la contemporaneità di questo articolo. Dopo varie ricerche abbiamo constatato l’indisponibilità, a oggi, almeno in Italia, però in rete c’è un video in due parti dell’intervista tra Isashi Tanaka, giornalista audio e il proprietario del locale, Shoji Sugawara sulle testine che quest’ultimo è andato nel tempo sviluppando, che andiamo a pubblicare qui sotto a beneficio dei nostri lettori. Anche questa mezz’ora (in totale tra i due video) di conversazione possiamo dire sia molto indicativa dell’approccio “jazu kissaten”!

[JAZZ Cafe BASIE Shoji Sugawara interview: The BASIE model Part 1] https://youtu.be/23gMvr_3b-E
[JAZZ Cafe BASIE Shoji Sugawara interview: The BASIE model Part 2] https://youtu.be/GRSwbJjm5Ro

Forse dopo tutta questa conversazione qualcuno di voi sarebbe curioso di vedere la testina di cui parlano, eccola, e se volete potete pure (finché sarà disponibile) comprarla su eBay:

Testina Jazz Kissa Basie

Un saluto a chi ci ha seguito fin qui!

Timberland Chukka

In questo tumblelog, dove trovano asilo tutte le cose e le situazioni meno popolari, possiamo introdurre un nuovo elemento che in questo momento il “sistema” non comprende tra le scelte possibili, e il cui valore, un po’ come tutto quello che trattiamo, è inversamente proporzionale ai numeri che genera, parliamo oggi dei polacchini Timberland Chukka, noti anche come Newman 1973.

Tanti sono i modi per denominare i polacchini della Timberland, forse il modello che più di ogni altro ha creato il fenomeno di questo marchio, diventato un simbolo su cui sono stati scritti perfino dei saggi.

 https://www.timberland.it/limited-edition/iconic-80s-boots.html

Poche operazioni di marketing attorno a un brand di calzature hanno avuto un effetto così deflagrante, poche volte accade che un prodotto venga più apprezzato fuori dalla nazione in cui viene prodotto, ma in casi come questo è probabile avvenga in Italia, Paese in cui il concetto di qualità e stile legati ai frutti dell’industria è più sentito che in qualsiasi altra parte del mondo.

Spesso in questi casi è fondamentale l’intuizione e l’opera dell’importatore che sceglie di investire soldi e fatica su un determinato marchio in cui crede lui prima di chiunque altro. Come per il proverbiale caso di Carlo Talamo con Harley Davidson e Triumph, lo stesso è accaduto qui con Giorgio Faccioli, anch’egli essendo riuscito in un incredibile bis con Clarks prima e Timberland poi (stranamente, prodotti che si rivolgono a platee opposte, pur ognuno dei due proponendo dei polacchini/chukka, le Desert Boot l’una, le Newman 1973 l’altra).

La storia stessa della casa produttrice insegna come sia indispensabile, pur producendo prodotti di qualità, passare dall’anonimato a un brand, studiando un logotipo e un naming efficace, che faccia andare in zucca (metafora molto azzeccata per queste calzature) a milioni di persone un prodotto e scateni un desiderio condiviso, non tanto e non solo collegato a un oggetto e alla sua funzionalità ma a un sistema di simboli accuratamente studiato in quell’affascinante materia che è la semiotica, che trova nei suoi massimi esponenti mondiali Roland Barthes, Umberto Eco e Omar Calabrese, presente tra l’altro nel testo che riportiamo in bibliografia e nell’immagine di copertina di questo articolo, in compagnia di sociologi del calibro di Francesco Alberoni, professori come Silvio Brondoni e di giornalisti come Luca Goldoni, Cesare Marchi ed Enzo Biagi, tanto per dire.

Da questi pulpiti altissimi si può calare nel pratico, nella vita di tutti i giorni, nel casual e trovare casi di studio eccellenti come questo marchio e quello che a nostro avviso è il suo prodotto più iconico (anche se sconta in questi ultimi anni uno inspiegabile oblio di cui magari approfondiamo in seguito) tra tre o quattro modelli azzeccati che hanno creato a suo tempo, dagli inizi degli anni ’80 diremmo, la più grande mania attorno a questo capo di abbigliamento che sia mai esistita. Così come i Beatles assieme a Elvis furono i più eclatanti casi di isterismo delle adolescenti attorno ai fenomeni musicali, solo attorno alle Timberland si è creato quel caso mitologico, ma crediamo accaduto realmente alcune volte, della rapina delle calzature accaduta ai danni dei rampolli milanesi.

Segno che l’oggetto, difficile da acquistare per via del suo prezzo allora assai proibitivo e staccato da tutto il resto del mercato, portava alcuni giovani a gesti inconsulti che non accadevano all’epoca manco per icone sempreverdi anche più preziose e facili da trafugare, come ad esempio i Rolex.

Dicevamo tre o quattro modelli: la Timberland si affaccia nel panorama mondiale, ma sopratutto in quello d’origine (l’America) e quello italiano con quattro modelli in particolare:

i “boots” (per gli amici i six inches) in nabuk giallo, quelli più sfacciati, rimasti più o meno sempre in voga negli anni, stranamente divenuti due decenni dopo il loro primo exploit oggetto di culto anche tra i rapper (uno di questi, Timbaland, ne ha anche mediato il suo nome d’arte), le “carroarmato” (o 3-Eye Lug Handsewn), il mocassino a tre occhielli, con suola “carroarmato” appunto, salsicciotto alla base delle caviglie e proposta normalmente in cuoio liscio rossiccio, le boat shoes con la soletta sottile intagliata a zig-zag per catturare l’acqua presente sul ponte della barca o sul molo e creare un interessante effetto antiscivolo e la Chukka appunto, il polacchino in cuoio liscio arancio, con laccio “brown & yellow”, suola massiccia ma tassellatura sottile, normalmente foderato in pelle e contenente un’imbottitura in gommapiuma, ma talvolta proposto con pelo bianco all’interno nella versione più invernale.

Tale calzatura, dall’aspetto di per se abbastanza sobrio, abbinato a una “patina” che andava prendendo il pellame con l’uso, e a tutto il resto dell’abbigliamento studiato per darne un immaginario – dobbiamo dire – piuttosto riuscito, a cui possiamo abbinare gli aggettivi “yankee”, “casual” e “outdoor”, fatto di gilet imbottiti con fronte in cuoio e il restante in nylon (Schott), camicie a quadrettoni (Controvento, Levi’s, etc…), jeans (Levi’s, El Charro, Chambers), e le irrinunciabili calze a rombi (Burlington).

L’immaginario sembra essere quello delle Rocky Mountain americane, o meglio ancora quello dei grandi laghi e degli stati del nord-est, tra cui il New Hampshire, quello in cui viene fondata l’azienda nel 1973, ben descritto in un testo di un fotografo americano, tale Earl Roberge, che aveva tutt’altri intenti, Timber Country, in cui ci siamo imbattuti a causa del nostro interesse per il legno e la sua lavorazione.

In effetti un look come quello summenzionato rimanda a un preciso tipo di libertà e di contatto con la natura, di gran lunga più sano e più felice di quello proposto da altri marchi che rimandano a immaginari metropolitani, più cool e updated a oggi, ma anche più alienanti (vedi Dott. Martens e Palladium), dove, in tanto materiale fotografico ovviamente un tantino edulcorato, si immagina la montagna non matrigna, ma mamma.e culla di giornate spensierate.

Nessun altro brand è riuscito a veicolare con altrettanto successo un immaginario, tralasciando quelli sportivi, Nike e Adidas in testa, che riuscendo ad azzeccare solo uno stile “street” metropolitano, accontentano più che altro gli adolescenti in una fase ristrettissima del loro percorso di crescita, esaurendo rapidamente la desiderabilità di vestirsi e di vivere a quel modo da bivaccatore di periferie, stile di vita che a una persona benestante e consapevole fa molto poca voglia.

Queste calzature, come si accennava all’inizio dell’articolo, scontano a oggi uno strano destino: da oggetto di culto senza precedenti negli anni ’80 per tutti gli aspetti immateriali descritti sopra, ma anche per una qualità fuori dall’ordinario (soprattutto per via della proverbiale e mai venuta meno impermeabilità dei prodotti brand nord-americano, risultante da diverse lavorazioni esclusive e senz’altro piuttosto costose esse stesse), dopo essere state proposte dalla casa-madre un’ultima volta nel 2019, nel tentativo di un rilancio della moda paninara – sottocultura che ha subìto più di ogni altra un riflusso spaventoso e senza ritorno – con una campagna pubblicitaria che abbiamo riportato nel link sopra, senza aver ottenuto troppa eco, sono state totalmente archiviate.

Un destino indegno per un modello oggettivamente perfetto già sotto il profilo formale e caratterizzato da un certo minimalismo che faceva supporre sarebbe potuto venir riciclato anche in contesti diversi, immaginiamolo abbinato a una giacca spinata in tweed, accompagnata da un pantalone in velluto a coste, o come si fa coi berretti da sci, accompagnate a un cappotto più sobrio, una volta abbandonati jeans, piumini e camice in flanella (posto che non è vietato reindossare questi tre ultimi capi, magari non tutti assieme). 

Ma a quanto pare, nel panorama odierno non c’è (o non c’è ancora) posto per questa forma, nè è stata azzeccata una riedizione con un nuovo materiale o almeno una nuova tonalità che potesse, sempre a livello semiotico, abbinarsi meglio al mood odierno. Stranamente non troviamo nemmeno un follower (vedi Docksteps) che si approfitti di questa falla lasciata dal produttore originale, ne nessuno stilista che scimmiotti al rialzo le forme caratterstiche del modello oggetto di questa disamina.

Il modello non è però caduto in un completo oblio: come abbiamo avuto modo di constatare, da vecchi apprezzatori di questa calzatura, c’è una ristretta nicchia di appassionati che tiene insieme un piccolo mercato di compravendite di questa calzatura sui market on-line, e non senza fatica, si riesce a rimediare un paio di questi eterni polacchini, per chi ancora apprezzi l’eleganza casual del capo e la qualità oltre tutta la media di prodotto (il vecchio slogan di Timberland era “More quality than you may ever need”) odierno, di questo e di altri marchi.

Per comprare su VINTED la versione con interno standard.

Per comprare su VINTED la versione con interno in pelo.

Per la cronaca, notizia che non tutti sanno, nemmeno tra i più entusiasti utilizzatori del marchio, Timberland nel 2011 è stata assorbita dalla multinazionale VF Corporation, già proprietaria di “The north face” a altri marchi noti del mondo “outdoor”.

Tra i pochi brand che possiamo porre a paragone della casa dell’alberello per la qualità troviamo prima di tutto Paraboot, che però sforna storicamente il mocassino da città mediato dalla forma tirolese, che in realtà non potrebbe essere indossato agevolmente nei boschi e Tricker’s, ottima calzatura inglese, ancor più aliena da qualsiasi collocazione “country”.

L’unica linea che poteva veramente misurarsi con le Timberland, pur non proponendo modelli di scarponcino alto, era la partnership nostrana tra l’allora classicissimo produttore italiano Divarese e la Sisley, nata come costola della veneta Benetton (che in quel periodo aveva peraltro assorbito il calzaturificio lombardo), e vocata proprio come Timberland, anzi probabilmente prendendo spunto proprio da questa, per un immaginario “outdoor” avventuroso e vòlto alla scoperta dei grandi spazi.

Tale partnership, o meglio l’iniezione dello stile Sisley nel contesto storico del calzaturificio di Varese fu la linea “Hudson Bay”, che richiamando proprio la sagoma del modello Paraboot, creò un mocassino rustico e dalla forte personalità e qualità, che per diversi anni in Italia fu tenuto molto in considerazione e scelto da diversi clienti che avevano il benchmark molto elevato di Timberland come elemento di confronto.

Peccato che anche in questo caso, forse dobbiamo proprio constatare che dopo l’ultima ondata di entusiasmo per il tema, contraddistinta dal film “Cliffhanger” con Sylvester Stallone, la stagione della vita all’aperto, dei boschi e dei grandi laghi, dalla metà degli anni ’90 ha perso definitivamente di appeal presso il grande pubblico, quantomeno rapportata al dialogo con le città. Oggi chi ricerca questo stile di vita e lo declina nell’abbigliamento, quasi esclusivamente in montagna a dir la verità, utilizza l’imbarazzante attrezzatura tecnica che sfigura sia nei corsi del centro cittadino, sia nei sentieri di montagna. Colori improbabili abbinati a materiali che si vuol presentare come “tecnici”, “traspiranti” e perfino “ecologici”, ma che nascondono a nostro avviso solo la cinica speculazione di rifilare al grande pubblico tonnellate di derivati del petrolio riciclati e rilavorati in Cina, che ognuno di noi mette tranquillamente a contatto con la propria pelle, in alternativa a quelli naturali che si usavano solo pochi anni fa, tra cui cuoio, lana (in tutte le sue preziose qualità), cotone, seta, lino, filati e prodotti in Italia o in altri Paesi dell’occidente di grande tradizione manifatturiera.

Unico marchio che si sia affacciato su questo fronte negli ultimi anni, per dovere di cronaca, è l’americana Pendleton (https://pendletonwoolenmills.eu/?gclid=Cj0KCQiArsefBhCbARIsAP98hXT7YZi99WP3uhJUfnyuyzZV-in007phitvtMvN8W78VUoahFQiWmesaAvt6EALw_wcB), brand che prende il nome dall’omonima città dell’Oregon e che propone la curiosa combinazione di raffinate camicie in flanella e articoli per la casa connotati dal mood yankee, oggettivamente piacevolissimi. Forse è la mancanza di sinergia con altri marchi che non permette a quest’ultimo marchio di sfondare come accadde per la prima generazione quarant’anni fa, ma per soggetti che possano scegliere e agire autonomamente, assolutamente consigliato!

Il più probabile prezzo di vendita per dei numeri a maggior diffusione, 42 o 43, intonsi, sia con interno standard, che con sherling/pile (modelli prodotti al più tardi rispettivamente nel 2019 – l’ultimissimo – e 2009 – l’ultimo prima della cessione del marchio a VF Corporation -) possono venire proposti a 200€ cadauno o anche oltre, se la persona che intende mettere in collezione una rarità del genere è disposta a investire una somma più importante.

Bibliografia:

https://www.anobii.com/it/books/timberlandia/9788804307198/01e26e2abd2b1dfcde

https://www.goodreads.com/en/book/show/313548.Timber_Country

https://www.anobii.com/it/books/trattato-di-semiotica-generale/9788893440059/01297fdbe29d8acfe5

https://www.anobii.com/it/books/il-senso-della-moda/9788806181772/013d60b83d362c3833

L’ascesa dell’house-music nella Riviera romagnola

Era naturale, dopo aver raccontato la nascita del fenomeno House-Techno a Ibiza e nel nord-est italiano, pubblicare un articolo sui prodromi di questa avventura e menzionare i locali di riferimento anche su un’altra area importantissima a livello europeo per la cultura del clubbing che ha generato e anche per la la dimensione del fenomeno: la Riviera romagnola.

La celebre serie di indicazioni per i locali di Riccione

Oltre a questo, è la zona tra le tre che ho maggiormente frequentato negli anni ’90, complice la scelta in quel periodo di risiedere a Bologna, perciò è una situazione che ho conosciuto in profondità.

L’equivalente dell’accoppiata Movida/Ranch qua in Emilia fu l’Ethos-Mama Club/Diabolik’a, locali fondati da Gianluca Tantini in collaborazione con Maurizio Monti, delle pettegoliere (Sabrina Bertaccini e Mara Conti) per le relazioni pubbliche, e di Flavio Vecchi e Ricky Montanari per il sound. Questi due furono i locali ove vi fu la netta cesura tra un sound piuttosto condiviso in tutte le discoteche italiane dell’epoca (sembra incredibile oggi, ma fino ad allora si ballava Den Arrow e Spagna, qualche reminiscenza del Cosmic sound arrivata in tutte le periferie, Tracy Spencer e Jimmy Sommerville, Depeche Mode persino i Pink Floyd con The Wall, canzonette come Da-Da-Da dei Trio, Sunshine reggae dei Laid Back e amenità come queste).

Quindi immaginiamo i nuovi DJ portarci fuori non senza difficoltà da un suono senza alcuna pretesa di innovazione e di ricercatezza a uno che rimbalzava in Italia coi modi che abbiamo raccontato in altri articoli e che Flavio Vecchi ci racconta in questa preziosa intervista, ovvero andando in esplorazione a Londra (lui ma anche Cirillo e Ricky Montanari, come anche Ralf a New York) come un moderno trappeur e portando a casa il sound più innovativo proveniente dalle due sponde dell’atlantico.

Sarebbe ingiusto stabilire una graduatoria di chi abbia aperto prima, se in Veneto o in riviera romagnola, in quanto se a Jesolo si esordì al mare da metà ’89, è pur vero che i party con la stessa formula erano già stati lanciati tempo prima al Macrillo a Gallio, mentre per quanto riguarda la situazione emiliana, prima che partissero i locali sopra citati, era già da tempo che Vecchi proponeva un certo stile già al Kinki a Bologna, rimasto per anni il riferimento per la musica di ricerca e l’atmosfera “di tendenza” in città, durante la stagione invernale. Quello che possiamo dire, è che ognuna di queste due costiere ci è arrivata indipendentemente e con una propria storia.

Qui l’intervista a Flavio Vecchi pubblicata pochi giorni fa:

La differenza tra le due regioni in generale, da quello che ho esperito personalmente è ancor più profonda di questa piccola disputa su chi abbia lanciato in Italia la tendenza e attiene a un carattere generale differente, probabilmente per profonde ragioni storiche. Il Veneto è piuttosto dicotomico, nonostante abbia avuto il dominio della Serenissima, piuttosto liberale quando non libertino, per secoli, con ogni probabilità dopo l’Unità è stato soggiogato dal Vaticano avendo attecchito particolarmente bene un fenomeno definito “cattolicesimo intransigente”, e nel dopoguerra divenendo grande serbatoio per la D.C. In compenso chi si chiamava fuori dal contesto erano personaggi veramente trasgressivi, uno su tutti l’art director del Macrillo, Vasco Rigoni. In Emilia-romagna invece è storica l’opposizione al Vaticano, da molto prima dell’avvento del socialismo, e qui il fenomeno del divertimento notturno ha trovato un tessuto molto più fertile, con un territorio già da decenni predisposto; si pensi a Tantini, già da prima dell’era house coinvolto nel mondo musicale come organizzatore di concerti, ma si pensi soprattutto alla scena musicale bolognese, con Dalla, Guccini, Rossi, gli Stadio, Cremonini, Carboni, Neffa…

In effetti la mia esperienza personale mi ricorda Jesolo come patria di discoteche fantastiche, ma scenari un po’ “post-atomici”, con gente che prendeva le 12 ore come una rivisitazione delle atmosfere dei film “I guerrieri della notte” e “1997, Fuga da New York”, molto impostata e un filino snob nei confronti di chi aveva gusti più popolari (non ignari di star esercitando un atteggiamento trasgressivo rispetto alle prerogative del territorio); l’Emilia Romagna invece presentava un popolo di punter nostrani molto più rilassati (polleggiati si sarebbe detto da quelle parti), quasi ci fosse una consapevolezza che la vita notturna che stavano facendo era in fin dei conti nient’altro che l’evoluzione nel solco della propria tradizione popolare. Basta vedere in successione questi documenti di due epoche successive per capire come la “tendenza” in Romagna fosse la prosecuzione del dancing/discoteca tradizionale e ancor prima della balera, o come ci ricorda Casadei, dell’aia contadina:

Al riguardo si narra che la decisione di aprire un after-hour da parte della ballotta dell’Ethos fosse dovuta al fatto che abitualmente Monti e combriccola erano soliti tirare mattina dopo la nottata in discoteca in vari locali (tradizione mantenuta gli anni a venire, con grande afflusso di gente al Lucky Corner dopo la serata in disco e prima dell’after), ma evidentemente insoddisfatti dell’offerta, decisero di aprire loro un altro locale dove ritrovarsi con chi voleva fare più tardi, ma forse più tra cappucci e cornetti che non tanto in pista.

Per chi volesse vedere com’era il Vae Victis, una perla dalle teche RAI

Oltretutto, da questo punto di vista, sempre parlando dei due locali pionieri, Ethos Vs Movida, va detto che nonostante fossero grosso modo gli stessi i successi dell’epoca, Tricky Disco, Pacific State, Your Love, French Kiss, A Path, etc, le scalette erano declinate in modo notevolmente differente nei due club: l’Ethos con un sound più morbido e rilassato (con molto più cantato), caratteristica che con l’eccezione della piramide del Cocco sarebbe rimasta negli anni a venire; il Movida aveva un sound più duro (con molto più dub), pilotato dalle contaminazioni anarco-punk EBM/death-rock/Industrial di Leo Mas, che perfettamente allineato al carattere della clientela jesolana, abbiamo detto più rigido e molto meno gay-friendly, sarebbe rimasto cifra stilistica negli anni successivi, col Musikò, l’Asylum di Moka DJ (locale gabber), la successiva gestione Aida delle Capannine con Marco Bellini in consolle (“allievo” della Triade) e l’Exess.

Locali necessariamente da menzionare in una storia notturna della riviera romagnola sono oltre a quelli già citati: Cocoricò, Peter Pan, l’Echoes (nato dalla necessità di trasferire la situazione dalle Marche alla più libertaria Romagna, a causa degli stessi problemi avuti col Movida nel Veneto, di far accettare alla popolazione più adulta e all’amministrazione questo nuovo fenomeno), l’Ecu, il Classic Club – che ha avuto un po’ lo stesso destino del Kinki, prima locale gay, poi afterhour -, il Cellophane, il Byblos, il Pasha e gli after, il Diabolik’a (poi Vae Victis e successivamente Echoes) e Il Club dei 99 a Gradara.

In Emilia-Romagna i protagonisti erano altri rispetto ai DJ superstar del Veneto e vi fu poco scambio, salvo una residenza di Andrea Gemolotto al Cocoricò nei primi anni ’90, il tentativo messo in atto (con discreto successo tra l’altro) di chiamare un breve periodo Flavio Vecchi al Movida nel ’91 e successivamente come resident dj Massimino Lippoli, Angelino Albanese, Pier Del Vega e Stefano Noferini, di stanza normalmente in Romagna, al Musiko e al Gilda di Jesolo nelle stagioni ’92/93. Anche Leo Mas finì una stagione al Pascià la domenica sera, per il resto, in quello che a un certo punto venne definito il “divertimentificio” i big sono sempre rimasti Ralf, saldamente al comando del Titilla per circa vent’anni, Vecchi e Montanari, Ricci, i Pasta boys (Rame, Uovo, Dino Angioletti) e Ivan Iacobucci oltre al già citato Massimino.

Tanto per completare sommariamente il quadro, fuori da qui ci furono sporadicamente altri locali, nei dintorni di Ferrara Il gatto e la volpe, Il Mazoom di Sirmione, L’Alter Ego a Verona, La scala e il Kink Light a Padova e il Go! Bang a Fossalta di Portogruaro, il Kinki a Bologna, il Plastic a Milano e più tardi il Flash ad Aquileia. In centro Italia una certa importanza la ebbero il Red Zone, il Fitzcarraldo, Il Devotion (sì, il nome è preso dal pezzo dei Ten City dell’album Foundation).

Andava fatta questa “mappa” per rendere chiara l’area in cui si sviluppava il fenomeno nella penisola italiana, con un’appendice se vogliamo a Ibiza, in particolare coi locali Pacha, Amnesia, Ku (in seguito Privilege) e lo Space after hour.

Come di consueto, per coloro che arrivano alla fine degli articoli c’è il premio, in questa occasione la segnalazione di un canale Youtube del celebre New York Bar! Non si capisce se il nickname “Fabjazzlive” si riferisca a Fabio S, art director del primo after-tea d’Italia, un successo partito nell’autunno ’95 sui colli bolognesi al Vertigo, con Ivan Jacobucci in consolle supportato da Marco Spinelli, in cui confluivano tutto il pubblico e tutti i pr delle altre situazioni del sabato sera emiliano e oltre; locale in cui si ricreò, forse per l’ultima volta, quel clima particolare in cui chi c’è, sente di trovarsi all’interno di un momento magico, un po’ come all’epoca il Movida e l’Ethos. Qui è durato il tempo di una stagione: il successivo trasferimento estivo al Pascià di Riccione non è stato memorabile, mentre la successiva stagione invernale al Ruvido è stata purtroppo proprio fallimentare. L’estate successiva a La Villa Delle Rose, sempre in riviera romagnola nemmeno, poi so solo che il brand “New York Bar” è stato trasferito a Milano per qualche stagione, indice dell’hype raggiunto in tutto il nord-Italia, ma da allora in poi non l’ho più seguito personalmente. In questa pagina Youtube ci sono molti filmati della prima stagione, tra cui oltre alle pregevoli ospitate di Barbara Tucker e Ce Ce Rogers (ricordo come fosse ora la sua versione di “Promise Land”) si vede, in quello che pubblico, uno spezzone della chiusura della prima stagione, oltre a Ettore del Docshow in apertura (allora p.r. proprio all’after-tea), una delle scene più memorabili: in quella serata, caratterizzata da un’eccitazione palpabile, due donne che ballavano sui cubi davanti alla consolle, esibivano continuamente il seno, costringendo Fabio S ad andare di persona a ricoprirle, tra le risate generali. Uno dei tanti indici dell’atmosfera confidenziale che si era creata in quella stagione irripetibile tra le mura del Vertigo:

Bibliografia:

An history of Cocoricò (Riccione) in English

Infine, il docufilm a firma di Luca Santarelli che dovrebbe dare il definitivo racconto di quest’epopea:

Diesel Extraordinary Time Travellers

In this page a winter Diesel vintage sweatshirt with psychedelic “extraordinary time travellers” logo on the front.

In questa pagina la felpa invernale con grafica anteriore “extraordinary time travellers” psichedelica.

Felpa Diesel con grafica anteriore “extraordinary time travellers”

BRAND: DIESEL
ORIGINAL: YES
NAME MODEL: EXTRAORDINARY TIME TRAVELLERS
PRODUCT ID: 2
FIT: REGULAR
MADE IN: TURKEY
SIZE: M
YEAR: 1999
CONDITION: GOOD, THE ONE ON THE FRONT ISN’T A SPOT, IT’S A CAMERA DEFECT
COLOUR: DARK GREY
FABRIC: 100’% COTTON
LABELS: YES
SPECIAL FEATURE: PSYCHEDELIC FRONT GRAPHIC “EXTRAORDINARY TIME TRAVELLERS
SHIPPING: SHIPPING WORLDWIDE (ASK FOR DELIVERY COSTS) SPEDIZIONE OVUNQUE
PRICE: €69

Old glory

Rare and precious Diesel Old Glory denim pants, super used, from my own collection, that I’m proposing to collectors, fashion victims and/or fashion designers:

Un prezioso e raro pantalone in denim Diesel Old Glory, usatissimo, della mia collezione che propongo a collezionisti, fashion victim e/o fashion designer:

Jeans Diesel prima linea Old Glory

BRAND: DIESEL
ORIGINAL: YES
NAME MODEL: OLD GLORY
PRODUCT ID: 1
FIT: REGULAR
MADE IN: ITALY
SIZE: 32 UK/USA 46/47 ITALY
YEAR: 1991
CONDITION: GOOD
COLOUR: WORN INDIGO BLUE
FABRIC: 100’% COTTON
LABELS: YES INSIDE/OUTSIDE (SI, DENTRO E FUORI)
SPECIAL FEATURE: OLD GLORY DIESEL VINTAGE WITH INNER SELVEDGE (CON CIMOSA ALL’INTERNO)
SHIPPING: SHIPPING WORLDWIDE (ASK FOR DELIVERY COSTS) SPEDIZIONE OVUNQUE
PRICE: €99

Blue System – Jet Set

Nel raccontare con parole e immagini del primo ingresso di questo brand in Italia, al termine dell’articolo vi informerò anche di un’interessante novità:

Si tratta di uno spin-off di un allora piccolo marchio svizzero, partito a fine anni ’60 dall’esclusiva Saint-Moritz da un’idea di Kurt Hulmer, sciatore col pallino della moda, che dopo essere stata attiva i primi anni come boutique con una proposta piuttosto radicale nel contesto della stazione sciistica (capi di seconda mano e stile hippy), negli anni successivi ha implementato la proposta con una propria collezione di abbigliamento da sci e successivamente ha lanciato l’etichetta Blue-System; linea che ha avuto una stagione molto breve in Italia a cavallo tra anni ’80 e ’90. La diffusione a quanto ne so è stata molto localizzata (se qualcuno ne sapesse di più, come sempre sono ben gradite le indicazioni da parte di chi legge, poste come minimo con garbo e ancor meglio se con simpatia), mi verrebbe da dire nell’alto Veneto, ma credo che in zone come Bolzano o la Bergamasca possa aver avuto un ottimo riscontro, certamente fu Belluno la roccaforte, complice l’allora boutique di tendenza Za che propose questo marchio fin dalla leggendaria collezione di jeans noti per il dettaglio delle tasche posteriori “a soffietto”: ovvero nell’intenzione dei fashion designer dell’epoca di proporre un capo dal generale orientamento street-chic, l’idea è che avesse un appeal “rilassato”, impostazione over-size, ovvero vita e gamba larga e lunghezza contenuta, costringendo a portare il capo arricciato in vita, con grandi gambe dritte, probabilmente prendendo dal mondo hip-hop con una declinazione dance-oriented, e in questo anche le tasche erano “over-sized”, riportate poi ai bordi standard plissettando leggermente il pezzo di stoffa durante la cucitura. La soluzione era una genialata nel suo piccolo, consentendo di ottenere una tasca molto capiente dove calare poderosi portafogli che tanto piacevano ai teen-ager, magari nella versione con catena da attaccare a un passante, per un’idea di un proprietario pronto ad affrontare i peggiori quartieri malfamati! Il lavaggio era un delavè al limite del bleached, ai fini di dare un immagine al capo di una storia alle spalle che avesse molto da raccontare, nottate infinite tra discoteche, afterhour e rave.

I Blue System con tasche a soffietto

BRAND: JET-SET
ORIGINAL: YES
NAME MODEL: BLUE SYSTEM
PRODUCT ID: 3
FIT: LARGE
MADE IN: ITALY
SIZE: M
YEAR: 1990
CONDITION: GOOD, THE ONE ON THE BACK ISN’T A SPOT, IT’S A CAMERA DEFECT
COLOUR: BLEACHED, LIGHT 
FABRIC: 100’% COTTON
LABELS: YES 
SPECIAL FEATURE: FOLDING POCKETS ON THE BACK, FIT LARGE
SHIPPING: SHIPPING WORLDWIDE (ASK FOR DELIVERY COSTS) SPEDIZIONE OVUNQUE
PRICE: €89

To buy on VINTED

E il risultato di questa proposta fu esplosivo, nelle aree ristrette in cui fu presentato questo brand. Probabilmente la Jet-Set pagava lo scotto di essere una piccola azienda svizzera appena affacciata nel panorama internazionale, e in particolare nel tentativo di penetrare nella nostra penisola, l’impresa era quella di Davide contro i Golia del fashion mondiale!

Ai jeans, che erano il capo principale e che andarono evolvendo nel corso dei semestri successivi, facevano seguito altri capi casual: primariamente felpe – mozzafiato – caratterizzate dal logo dei leoni rampanti declinato in varie grafiche, emblemi presi dall’usanza medievale nordeuropea di riportare tale blasone sulle armi, per dare una connotazione battagliera di chi indossava questi capi. Capi dalla portabilità comoda anch’essi; più marginalmente il marchio Blue System proponeva dei bomber – ovviamente – in varie colorazioni, con varie grafiche, spesso a tutta larghezza riportate sulla schiena e vari dettagli, talvolta metallici, a confermare questa immagine di “corazza” per gli eventi più caldi dei teen-ager che li avrebbero indossati.

Grafica tratta dal retro di una felpa, tra medioevo e psichedelia: un Mad Max in acido!

Va detto che questi ultimi hanno avuto qui in Italia una penetrazione molto superficiale rispetto ai jeans – che si presentavano molto più minimali e quindi più adatti ai nostri canoni stilistici – per felpe e soprattutto giubbotti; in Italia, la madrepatria mondiale dello stile, si preferivano capi più raffinati ove prevaleva la ricerca stilistica nel tessuto e nel taglio, e dove il marchio, dopo la sbornia paninara, aveva un understatement molto maggiore, fino ad essere arrivato negli anni successivi, dopo al declino stesso della Blue-System, a sparire totalmente.

Sono venuto a sapere, che al contrario in centro e nord Europa la Blue-System ha avuto un successo anche maggiore che da noi, quantomeno nel mondo hooligan, ove quella simbologia e quella semiotica nei bomber e nelle mantelle sono riuscite ad attecchire perfettamente nelle aspettative del pubblico che si scalmanava negli stadi.

La novità di questi ultimi giorni è che dopo anni di oblio, la Jet Set, sotto la direzione di Massimo Suppacing sta sviluppando il rientro nel mercato per la prossima stagione primavera-estate 2020 del brand Blue-System, con una nuova linea di jeans a cura dello stilista Michael Michalsky, che andranno, a quanto pare dalle premesse, a sfruttare l’heritage del glorioso passato nell’abbigliamento street/casual con posizionamento elevato. Se sarà proporzinato a quello del primo lancio, prepariamoci a degli standard molto esclusivi, si pensi che a suo tempo un altro degli elementi di rottura azzeccato dalla Jet-Set fu proprio il posizionamento molto sfacciato: mentre un Levi’s, riferimento assoluto all’epoca veniva venduto al pari di un italianissimo El-Charro a circa 80.000 lire, di circa diecimila maggiore a un onestissimo Uniform o Americanino (e la Diesel allora ancora lungi dallo sfondare venisse anche meno), i Blue-system venirono proposti all’arrogante prezzo di 150.000 lire (completamente fuori dal normale ambito casual e probabilmente anche più caro di un pantalone elegante) prezzo che fu la croce dei punter, che a costo di immani sacrifici, dovevano nel loro sentire procurarseli a tutti i costi a completare il look togo per affrontare le dodici ore dei sabato sera, e la gioia dei teen-ager figli dei genitori più ricchi, che grazie al facile espediente del prezzo come confine tra loro e i figli della gente comune, potevano distinguersi dagli altri ancor maggiormente che nelle passate stagioni stilistiche.

FELPA – SWEATSHIRT:

BRAND: JET-SET
ORIGINAL: YES
NAME MODEL: BLUE SYSTEM – LION
PRODUCT ID: 4
FIT: REGULAR
MADE IN: ITALY
SIZE: M
YEAR: 1990
CONDITION: GOOD
COLOUR: BRICK RED 
FABRIC: 100’% COTTON
LABELS: YES 
SPECIAL FEATURE: PSYCHEDELIC MIDDLE-AGE LION ON THE BACK
SHIPPING: SHIPPING WORLDWIDE (ASK FOR DELIVERY COSTS) SPEDIZIONE OVUNQUE
PRICE: €39

To buy on VINTED

Per chi desiderasse andare sul nuovo, è freschissima la notizia del lancio, dopo oltre venticinque anni dalle ultime linee arrivate nei negozi, della nuova collezione Blue System di Jet Set, qui sotto il link per il negozio on-line:

Blue System Spring-Summer 2020

Electro: elettronica, visioni e musica

La musica techno e house è ormai arte totale. Un importante evento a cura di Jean-Yves Leloup già tenutosi alla Philharmonie de Paris e passato per la 58esima Biennale di Venezia 2019 e successivamente a Londra (nella prestigiosa sede del Museo del Design), si appresta a raggiungere Dusseldorf (al locale palazzo dell’arte), celebrando l’evidente successo dell’ondata dance basata sulla strumentazione elettronica.

Tale stile musicale, essendo stato fin dal principio irradiato da un solo individuo, quasi mai molto appariscente, posto dietro a una consolle, il dee-jay e non più da vistosi complessi od orchestre, ha promosso la partecipazione del pubblico, da spettatore a co-protagonista di quanto accadeva, prima nella discoteca, successivamente nei rave, fino ai grandi eventi degli ultimi anni, ADE (Amsterdam Dance Event) e Tomorrowland su tutti.

Lo Smiley diventa soggetto di un'opera d'arte contemporanea

Untitled (The Endless Summer) – Bruno Peinado – 2007: Pannello composito in alluminio, lacca, taglio CNC, neon, variatore, trasformatore. Edizione di otto esemplari; Courtesy Galerie Loevenbruck, Parigi.

Da situazioni semi (o del tutto) clandestine, la lunga serie di happening, o per certi aspetti eventi mistico-iniziatici accaduti negli anni ha dato luogo a quello che ormai, a partire da questa mostra inserita nella kermesse più importante al mondo, è promosso pienamente come movimento artistico. Tali eventi accadevano nel Regno Unito sotto forma di rave illegali, in Italia (riviera adriatica, tra Riccione e Jesolo) e Spagna (Ibiza in particolare) dentro a locali che erano delle situazioni a volte di legalità sospesa o presa quantomeno un po’ sottogamba. Si pensi che in Gran Bretagna fu promulgata al riguardo una legge specifica, il Criminal Justice and Public Order Act del 1994. Per quanto riguarda l’Italia, vi fu tutta la stagione delle “mamme rock” e delle ordinanze per anticipare la chiusura dei locali.

E’ appurato dunque che sia gli eventi clandestini accaduti nelle campagne inglesi narrati da Simon Reynolds in “Generation Ecstasy“, che quelli accaduti in Italia descritti in questo tumblelog siano passati, da fenomeni da censurare come venivano trattati (e avversati) mentre si sviluppavano, a fatti artistici tout court meritevoli di una postuma musealizzazione.

Dancefloor: Panorama 1987-2017 AA. VV.

Tra gli artisti che hanno contribuito compaiono Jacob Khrist, Soundwalk Collective, Bruno Peinado, Moritz Simon Geist, 1024 architecture e molti altri. Un nugolo di fotografi sono quelli direttamente coinvolti nel fenomeno rave e dance della propria nazione: da Alexis Dibiasio a Olivier Degorce, da Alfred Steffen a Caroline Hayeur, la carrellata di personaggi e di luoghi è estremamente vasta e permette a chi non fosse già addentro di farsi un’idea dell’universo variopinto che dà vita a questo fenomeno. L’opera “Divinatione” del fotografo Jacob Khrist in particolare, vuol promuovere l’evoluzione di Parigi come novella metropoli europea coinvolta nel fermento rave/elettronico internazionale.

Particolarmente interessanti i lavori prodotti dal collettivo 1024 Architecture, François Wunschel, Jason Cook e Pier Schneider, CORE, un viaggio sensoriale e visivo, ove attraverso fibre ottiche, al ritmo del sound di Laurent Garnier si anima uno spettacolo luminoso 3D:

e “Walking-cube”, un prodigioso sistema di automazione, ove una struttura metallica sollecitata da segnali digitali si muove, cambiando forma e dimensioni, emettendo inoltre un suono ritmato molto coinvolgente; lavoro questo in continuità a dire il vero con tutto un filone già visto in scorse edizioni della Biennale piuttosto che della dOCUMENTA di Kassel, e certamente in un’installazione al museo di arte moderna di Budapest di cui eventualmente in futuro darò maggior conto:

Moritz Simon Geist, performer, musicista e ingegnere,  espone un esemplare della sua collezione di robot sonori MR-808 Interactive, che replica il suono della celebre drum machine cui si ispira, la Roland TR-808, strumento principe fin dalla sua creazione per tutta l’house la techno, a fianco della sorella TB 303 le cui linee di basso vennero sfruttate con particolari tecniche per il genere acid house. La 808, come è ovvio, dà il nome al leggendario duo inglese 808 State.

Per quanto riguarda l’edizione veneziana, nel succulento ciclo di conferenze curate da Guglielmo Bottin, oltre alla performance di Bruno Belisimo, all’ottima conferenza di Fabio De Luca, alla presenza di Lele Sacchi (di cui consiglio il recente saggio “Club Confidential”) segnalo come sigillo della manifestazione l’intervento sullo stile “Balearic” e successivo dj set del co-fondatore di questo genere, Leo Mas. In Francia, Inghilterra e Germania la mostra ha compreso nel titolo il nome degli artisti nazionali più noti nel genere, Daft Punk, Chemical Brothers e gli iniziatori di tutto il movimento a Dusseldorf, (in quei Paesi la manifestazione si intitola: “Electro, from Kraftwerk to…” seguita dal nome delle band delle rispettive nazionalità, con l’eccezione della Germania, dove sia chiama semplicemente: “from Kraftwerk to Techno); alla Biennale implicitamente, con la chiusura dell’evento a lui riservata, si è voluta dedicare l’esposizione al DJ milanese celebrando la sua gloriosa militanza. Probabilmente si è preferito non inserirlo nel titolo in quanto personaggio troppo underground per essere immediatamente riconosciuto dal grande pubblico, anche se va detto che Leo è una gloria ultratrentennale nel panorama musicale internazionale, tra le altre cose negli anni ’90, unico periodo in cui abbiamo avuto mega-manifestazioni elettroniche in Italia, è sempre stato l’headliner sia dell’ Exogroove che del Syncopate.

Leo Mas celebrato alla Biennale 2019

Dj eclettico e clubbing alternativo da Ibiza a Jesolo:

Per coloro che si fossero persi sia l’edizione francese, che quella veneziana e anche la tappa inglese, segnaliamo che a dicembre 2021, il nove, parte la versione tedesca al palazzo dell’arte di Dusseldorf (e dove altrimenti), dove il titolo si focalizza sugli eroi di casa già presenti in quelli di tutte le precedenti tappe. Mostra che dura fino al quindici maggio del 2022. Link sulla sitografia.

Bibliografia:

Il booklet della tappa veneziana dell’evento

Generazione ballo sballo – Simon Reynolds – Arcana editrice

A brief history of Acid House “The true story of how a synthesizer accidentally changed the world” – Suddi Raval – Attack Magazine

Join The Future: Bleep Techno and the Birth of British Bass Music – Matt Anniss – Velocity Press

Sitografia:

La pagina della Philarmonie de Paris relativa alla tappa originaria dell’evento

La pagina della Biennale relativa allo specifico evento “Electro”

La pagina della passata tappa inglese dell’evento

La pagina della prossima edizione tedesca

Il sito personale del curatore e produttore veneto Guglielmo Bottin

L’alchimia delle collaborazioni e del sampling.

In questo articolo trattiamo una diversa sfumatura di quanto già sviscerato in quello riguardante le contaminazioni nell’arte, volendo evidenziare quel particolare fascino che hanno i due fenomeni citati nel titolo, ovvero collaborazioni tra artisti apparentemente di diversa natura che escono con un progetto comune e il differente caso del sampling, ovvero quasi di un “furto”, di un saccheggio di canzoni o parole o suoni già esistenti al fine di infarcire un nuovo soggetto, una nuova track che in alcuni casi suona perfettamente armonica, in altri invece, volutamente, diviene una sorta di Frankenstein musicale, sempre però piacevole e ben riuscito. Non a caso la sampladelia nella colorita definizione di Simon Reynolds è una sorta di  “zombie music: parti sonore, riff, parti cantate vivisezionate dalla traccia originale e galvanizzati nel senso originale del termine (ovvero migliorati dalla loro condizione originale, magari all’interno di un contesto totalmente inoffensivo, attraverso un sottile riporto di materiale superficiale che rende nella nuova versione il materiale potentissimo), suoni morti rianimati come uno zombie, un corpo haitiano portato indietro a una sorta di semi-robot da uno stregone voodoo (il produttore), che usa i sample come degli schiavi”.

Prima di addentrarci a fondo nella materia musicale, in questo Frankenstein dell’arte cito il caso, cui sono al bandolo grazie al Paul Miller citato nella Bibliografia riportata al termine dell’articolo. E’ stato proprio ascoltando la sua conferenza al Google Headquarter in California in occasione della presentazione del suo libro “Sound Unbound”, riguardante proprio la materia del sampling, ho notato che alle sue spalle aveva un’immagine stranamente familiare, del tutto simile a quella utilizzata nella grafica del disco d’esordio dei Cybotron, il leggendario “Enter”. Tale immagine era già stata utilizzata dallo stesso autore nelle tournee del suo testo precedente, “Rythm Science”, in entrambi i casi a Spooky Dj voleva far notare il nesso tra tecnologie, arte e saccheggio della produzione altrui e successiva rielaborazione in un nuovo lavoro.

DJ Spooky

L’opera era il risultato dello sviluppo di un’apparecchiatura inventata dallo scienziato e medico Étienne-Jules Marey a fine ‘800 per poter approfondire i suoi studi sul movimento del corpo umano e animale:

DJ Spooky introducing Rebirth of a Nation

tale tipo di risultati rimandano innanzitutto alla corrente del futurismo, che in opere come “Rissa in Galleria” o “La città che sale”, o ancor meglio nel classico di Boccioni “Dinamismo di un ciclista”, visibile al Guggenheim di Venezia, evidenziano il debito a questo tipo di ricerca, ma anche al più recente lavoro di Jamie Putnam per la copertina del trio di Detroit del 1983, che rimanda in maniera evidente anch’esso al lavoro di Marey attraverso la scomposizione dell’immagine in una sorta di pixel primordiali:

Cybotron_enter

Secondo una definizione di Artur Kroker e Michael Weinstein, la sampladelia è  manifestazione di un certo archivismo della cultura Cyber-punk, che prende gli ultimi ottant’anni di suoni registrati e li ri-contestualizza, li ricondiziona e li ri-fonde in una sorta di morphing dove un suono si mescola con un altro e il risultato finale è un nuovo soggetto.

I primi campioni si possono far risalire agli MC dei primi hit rap, come non ricordare al riguardo il celebre campionamento di “Good times” degli Chic ad opera della Sugarhill Gang nella mitica “Rapper’s delight”:

Un certo utilizzo della musica si faceva già nel dub utilizzato nei sound-system giamaicani, dove spesso il lato-b dei vinili lì prodotti era la versione solo strumentale della canzone presente nel fronte, ottima per essere mixata e ballata.

Il “Vs” invece è il fenomeno per il quale si fa una collaborazione per contrasto, dove un artista “alto” collabora con uno di strada, o un artista bianco (nell’accezione che è armato di chitarre) dialoga con uno nero (notare che i musicisti neri, con l’eccezione del meticcio Hendrix, non si lanciano pressoché mai nelle distorsioni chitarristiche tipiche del genere hard rock), o uno dalle linee più soft si “confronta” con un altro o una formazione dai suoni più duri.

Caso di scuola a questo titolo il pezzo “Walk this Way” tra Run DMC e Aerosmith; da quel momento il mix tra rap e hard rock si sarebbe definito crossover:

Ognuna di queste due pratiche crea una sorta di nuove ‘sinapsi’ nell’intelligenza musicale planetaria, permettendone la crescita del corpo universale.

Tante sono le linee d’origine del fenomeno; forse andremo a svilupparle in futuro. Qui ci piacerebbe più che altro fare un elenco il più possibile sintetico dei più eclatanti frutti del Vs e del sampling. Se vogliamo il primo in musica è un elemento quasi necessario, se il Vs (dal latino versus ovviamente, l’uso è lo stesso che se ne fa nella boxe o nel wrestling) è la spinta verso la collaborazione più estemporanea e originale, una minima collaborazione tocca a tutti, anche a quei musicisti che si fregiano di fare uscire l’album a loro nome: come sarebbe stata la carriera di Bruce Springsteen senza la E-street band, Lou Reed è stato certamente un gigante, ma è cresciuto nei Velvet Underground e sopratutto nella Factory di Andy Warhol, Micheal Jackson deve molto, nel bene e nel male, a suo padre e ai suoi fratelli, il resto a Quincy Jones, il suo produttore, senza il quale difficilmente sarebbe diventato il divo del pop, idem Madonna che pare una “self-made-woman”, ma dietro le spalle agli esordi ha avuto personaggi del calibro di Nile Rodgers. Persino quell’incredibile personaggio di David Peel (mancato nell’aprile del 2017 nell’indifferenza generale, quando lui era assieme a Maharishi Mahesh Yogi uno dei guru di John Lennon), all’origine un one-man-band senza fissa dimora, si dovette comunque fare assistere da Peter Siegel per registrare il suo imprevisto album d’esordio “Have a Marijuana” e proprio da John Lennon e Yoko Ono per il successivo “The Pope Smokes Dope”; inoltre non disdegnava di accompagnarsi con altri artisti, normalmente dei freak come lui, come in questo caso in cui duetta con Dionna Dal Monte in una performance irresistibile:

Andando ora al nocciolo delle commistioni tra collaborazioni e utilizzo dei campionamenti, partiamo in questa rassegna:

Il protagonista del jazz e del fusion Herbie Hancock collabora nel lontano 1983 con il poliedrico Bill Laswell proveniente dalla No-wave newyorkese e l’MC Grandmixer D.ST per uno dei primi “Frankenstein” del genere, la mitica rockit:

Poco tempo dopo inizia l’avventura di un altro dei più interessanti fenomeni del genere: il produttore Trevor Horn (già negli Yes e nei Buggles), addirittura un giornalista musicale in questo caso, Paul Morley e i musicisti J. J. Jeczalik, Anne Dudley e Gary Langan danno vita agli Art of Noise,  dal nome del manifesto musicale del futurista Luigi Russolo, diventando tra i pionieri del fenomeno del campionamento e di tutto il modo di costruire musica di lì in poi. In questo articolo, il pezzo che ci sembra più adatto da inserire è la leggendaria Paranomia, ma dovremmo ricordare per l’importanza all’interno dell’argomento che andiamo trattando, una lunga serie di brani, tra cui impossibile non citare almeno “Moments in love” e “Beatbox”.

Dì lì a poco, nel 1987, il pezzo che fa deflagrare definitivamente “l’arte del campionamento”, la leggendaria “Pump Up The Volume” dei M|A|R|R|S, anch’esso un ensemble molto particolare, formato dagli A.R. Kane e dai Colourbox, con in più la collaborazione di due DJ, Chris “C.J.” Mackintosh e Dave Dorrel. Il brano è, come sottolineato anche dal video, un vero e proprio caleidoscopio di campioni musicali, che possiamo segnalare presi da James Brown a Cool & the Gang, da Erci B. e Rakim a Whistle (in tutto sono stati contati dieci sample da altrettanti artisti e brani); il patrocinio del progetto viene ascritto al produttore Ivo Watts-Russell:

Non una collaborazione occasionale questa di Lindy Layton coi Beats International, che anzi era componente fissa del gruppo, ci sembra dare il là a tutta una serie di progetti da lì in poi (vedasi Lamb, Portished, Tricky, gran maestro di duetti e contaminazioni tra voci superfemminili e suoni digitali), aggiunge la sua voce soul al loro suono basico, batteria, linea di basso e pochi effetti:

In questa misconosciuta collaborazione tra i super-tecnologici 808 State e i classici del reggae, gli inglesi UB40, c’è proprio tutto quanto fa al caso nostro, un bel “Vs” eterogeneo tra gruppi di generi musicali apparentemente inconciliabili e inoltre nella canzone si può cogliere il campione da “The model” dei Kraftwerk:

Una giovanissima e allora sconosciuta Bjork Gudmundsdottir mette a disposizione la sua versatile voce, sempre per una collaborazione con gli 808 State, nell’album ex:el, nel quale in totale si contano due tracce con la cantante islandese:

Il famigerato e inedito “Vs” tra il musicista d’avanguardia Jon Hassel e gli (ancora loro) 808 State:

Poi, non fosse altro che per vederlo una volta in più, segnaliamo come il capolavoro dei Massive Attack (fin dall’epoca del Wild Bunch una sorta di collettivo aperto a elementi di ogni tipo) “Unfinished sympathy” prenda a prestito l’urletto femminile originariamente inserito nella Planetary Citizen degli impronunciabili Mahavishnu Orchestra e John McLaughlin, pubblicata quindici anni prima:

A chiusura, almeno temporanea della serie di collaborazioni e campionamenti, ci piace inserire questa traccia, dove in verità gli Orb si sono all’epoca appropriati indebitamente di un’intervista di Rickie lee jones, nella quale la leggendaria cantante americana, probabilmente in quel momento vittima di un brutto raffreddore, raccontava della sua infanzia, di come dalla sua casa vedesse delle meravigliose, morbide nuvolette; inserendo questo campione vocale all’interno di una serie di suoni anch’essi molto “sampladelici” ne è venuto fuori un pezzo che è un vero mito:

Infine un piccolo cenno alle tecnologie che hanno permesso lo sviluppo di tutto quanto accaduto all’interno della penultima decade dello scorso secolo, “sintetizzato” è proprio il caso di dire, all’interno di questo articolo: senza il Synclavier della New England Digital e il più economico e quindi più diffuso Fairlight CMI dell’omonima azienda, questa e altre mille storie non potrebbero essere stata raccontate!

Chiudiamo l’articolo con questo video che testimonia il nostro sogno di gioventù di stare dietro a queste consolle in qualità di produttori e/o ingegneri del suono:

Bibliografia:

Rhythm Science – Paul D. Miller Aka Spooky DJ that subliminal kid – MIT Press LTD

Sound Unbound – Paul D. Miller a.k.a. Spooky DJ – Edizione inglese: MIT Press LTD, edizione italiana: Arcana Editrice

Storia del Rock voll. 1-6 – Piero Scaruffi – Arcana Editrice

Energy Flash – Simon Reynolds – Arcana Edizioni

Hip-Hop raised me – DJ Semtex – Rizzoli

Remixing – Viaggi nella musica del XXI secolo – DJ Rupture – EDT