Alla scoperta dei Listening Bar dove incontrare audiofili o solitari in meditazione

Dopo un iniziale articolo comune, tra oriente e occidente, resici conto del grandissimo volume di informazioni che necessitava l’originaria cultura orientale in materia di “Jazz bar”, siamo arrivati alla conclusione della necessità di divisione di questi locali nelle due aree culturali dell’emisfero boreale, per dare una dovuta rappresentazione della declinazione che se ne da a oriente, maggiormente meditativa, e quella che se ne da a occidente, sempre con un maggior occhio al bilancio qualità/business, quando in Giappone il bilancio è completamente spostato sul primo elemento del rapporto, con le conseguenti frequenti chiusure negli ultimi anni.

Quello di cui parliamo qui non è il classico Jazz club con musica dal vivo, genere di locali già diffusa in tutta Europa da decenni e perciò ormai inutile da descrivere in queste pagine.

Qui facciamo riferimento a un locale pubblico in cui si possa a tutte le ore, per clienti molto diversi, poter fruire di un archivio quanto più sconfinato possibile, la collezione musicale del proprietario, suonata attraverso l’elemento che fa filtro su cos’è o non è un Listening Bar, ovvero un impianto High-End normalmente da decine di migliaia di euro. Qui il principale discrimine assieme ai numeri della collezione di vinili, che dovrebbero stare oltre ai tre zeri. Un impianto per un locale di questo genere deve avere dei tratti quasi normativi: altoparlanti da studio, possibilmente di grosse dimensioni, fatti muovere da possenti unità di amplificazione, meglio se valvolare, cui si invii un segnale da una sorgente necessariamente analogica, e qui abbiamo fatto già il cenno al paradosso nell’articolo dedicato ai Jazz Kissa: che in occidente, strizzando l’occhio al pubblico delle discoteche si fa uso pressoché sistematico dei Technics 1200, mentre in Giappone, patria di questi piatti, si usano esclusivamente vecchi giradischi europei, primi tra tutti Garrard, Thorens ed EMT (su questo argomento delle sorgenti analogiche magari prossimamente ci soffermeremo). Se in Giappone come fonti sonore si usano i classici da studio musicale (JBL, Altec Lansing, Tannoy…) già menzionati nell’altro articolo dedicato agli omologhi orientali, in Europa sta andando in uso, con la consueta esagerazione, rivolgersi a costruttori di amplificatori e altoparlanti per discoteca, magari dei migliori, ma ci rendiamo conto che si pone in atto quell’eccesso già introdotto all’epoca delle discoteche dove non si sa, o non si tiene conto che la pressione sonora misurata in decibel, è funzione logaritmica della potenza elettrica utilizzata, e che al passare da 30W per canale (più che sufficienti, specialmente se in uscita da un bel valvolare ad alta corrente) a 300, o peggio a 3000, non si ha, per fortuna peraltro, un equivalente aumento della pressione sonora, ma strumenti alla mano si potrebbe apprezzare l’aumento in decibel in termini di qualche unità. Per fortuna dicevamo sopra, perchè all’aumentare anche di poco di quest’ultimo parametro possiamo andare facilmente in area dannosa per l’udito, senza alcun beneficio peraltro nella fruizione musicale.

Con tutte le dovute differenze, il listening bar è prima di tutto anche da noi un locale in cui la musica viene ascoltata come forma d’arte. Dovrebbe essere un posto dove le persone possono rilassarsi e concentrarsi sulla musica, senza le distrazioni tipiche di un bar o di un locale notturno, anche se i più noti stanno prendendo la piega di essere una sintesi tra un ristorante e un dancefloor. La musica viene solitamente selezionata da un DJ o da un curatore musicale, e viene suonata attraverso un sistema audio di alta qualità. In occidente ha talvolta preso piede la consuetudine che l’esperienza musicale possa essere fruita anche ballando nel locale, se quello che viene suonato è un dj-set elettronico. Ma man mano che si diffonderanno queste situazioni possiamo confidare che aumenti la cultura nella tradizione del Jazz Kissa giapponese e si cerchi di trarre maggiore ispirazione dall’atmosfera intima tipica degli equivalenti orientali.

Tra i generi prevalenti anche in occidente vi è sicuramente il jazz, ma da noi un buon locale da ascolto inserisce tutte le branche non commerciali di musica contemporanea dove si possa offrire alla propria clientela degli ascolti non comuni e dove sia possibile percepire un alto livello di ricerca nello stile e nell’esecuzione: fusion, IDM, balearic, eclectic, freeform, etc… Perciò non deve stupire se alle pareti di un locale del genere si possano trovare appese copertine della leggenda del jazz Sonny Rollins accanto a quelle della leggenda dell’hard core Henry Rollins, o se a fianco a un ritratto della delicata cantautrice newyorkese Suzanne Vega, dovessimo trovare una posa provocatoria del tracotante protagonista della no-wave newyorkese Alan Vega, in una specie di ritratto di famiglia un filo surreale.

In termini di locali di punta del settore, ecco alcuni nomi che fanno tendenza in tutto il mondo:

Bonobo – Tokyo, Giappone: Questo listening bar di Tokyo è uno dei più famosi al mondo ed è noto per la sua selezione musicale di alta qualità. La musica viene selezionata da un team di DJ esperti e viene suonata attraverso un sistema di altoparlanti di alta qualità.

Brilliant Corners – Londra, Regno Unito: Questo listening bar di Londra è noto per la sua vasta collezione di vinili e per la sua attenzione alla qualità del suono. Per il raggiungimento di questa si utilizzano piatti Technics connessi al resto dall’impianto da mixer particolari e come trasduttori i classicissimi monitor “Arden” 15″, quelli che si dice (ma la Tannoy lo dimostrerebbe nel proprio sito, attraverso foto dell’epoca) fossero in utilizzo agli studi di Abbey Road ancora ai tempi dei Beatles e Pink Floyd.

Black Flamingo – Brooklyn, New York: Questo listening bar di Brooklyn è noto per la sua musica disco e house, suonata da DJ di fama internazionale. Il locale dispone di un sistema di altoparlanti di alta qualità e di un’atmosfera intima.

Bar Shiru – Oakland, California: Questo listening bar di Oakland è noto per la sua selezione di jazz e musica soul, suonata da DJ locali. Il locale offre anche una vasta selezione di vini e cocktail.

Iniziate dal secondo 50 se volete vedere immediatamente le immagini del locale

Spiritland – Londra, Regno Unito: Il locale offre cibo e bevande di alta qualità e ospita regolarmente eventi musicali dal vivo. Oltre ad essere un Listening Bar, Spiritland è anche un negozio di HI-FI, specializzato in cuffie e uno studio di registrazione. Un locale che vorremmo anche da noi.

Comprendiamo anche che il Lucky Cloud Sound System, locale che eredita la tradizione dell’idea di Sound System appartenuta alla leggenda del dancefloor David Mancuso, il quale era noto oltre che per la particolare tecnica di mixaggio (o forse di “non missaggio”) dove i pezzi vengono proposti per intero e con una breve pausa tra l’uno e l’altro, per aver impostato ai tempi del Loft un impianto hi-fi mai visto prima, e successivamente nelle sue ospitate internazionali, per presentarsi con una coppia di Linn Sondek dove si recava a suonare. In questo luogo si tengono dei party dove certamente si balla, ma si ascolta tra audiofili e appassionati – in un senso più ampio di quello attribuito a un dj-set dai soliti punter da discoteca – una selezione musicale piuttosto esclusiva.

Una menzione a parte va fatta per un Listening Bar Molto interessante: si tratta del Frissòn Roma – di Luca Quartarone, brillante titolare che dobbiamo ringraziare innanzitutto per essersi incaricato rispetto all’editore giapponese di distribuire in Italia i tre volumi del libro fotografico “Jazz Kissa” del duo giapponese Katsumasa Kusunose e Irene Yamaguchi, missione a noi molto gradita in quanto ne abbiamo acquistati due su tre da lui (mentre il primo abbiamo avuto la fortuna di reperirlo dal negozio inglese “Rare Mags“). Ma a parte questo dettaglio personalistico, va raccontato qualcosa di questo interessante locale, anch’esso in effetti piuttosto debordante da quelli che sono i comuni confini di un Jazz Cafè, ma in un verso a nostro parere in questo caso virtuoso: Quartarone ha inteso il locale come un ambiente interattivo e multidisciplinare, luogo interessante dal punto di vista musicale, ma anche sede per installazioni multimediali, e lavori inerenti alle arti visive. Il locale è talmente intriso di questi ultimi aspetti da somigliare a nostro avviso al bar della Biennale di Venezia, coi suoi colori sgargianti. Questo in virtù della partnership che è nata in questo progetto dal nostro Quartarone con Mario Ansalone, da anni gallerista a livello europeo.

Un’immagine del Listening Bar Frissòn di Roma.

Sitografia:

Articolo dal sito americano “Eaters”

I cinque migliori Listening Bar inglesi secondo il blog di Discogs

Il sito dell’eccellente Listening Bar francese Cafè Mancuso, ovviamente dedicato all’omonimo DJ

Ottimo articolo dall’e-commerce di Hi-Fi Ecoacustic sul fenomeno dei Listening Bar

L’articolo di “In Sheep’s Clothing Hi-Fi” che forse a suo tempo ha dato l’abbrivio al nostro interesse per i Listening Bar

Il mondo dei jazz kissa

Dopo diversi tentativi di cercare informazioni in italiano sull’argomento senza trovare risultati soddisfacenti, ci accingiamo a tracciare sul nostro tumblelog un panorama sui Jazz Kissa – Jazz Cafè in italiano – , realtà in cui ci siamo imbattuti nel periodo del lockdown, mentre facevamo ricerche sulle nostre passioni di sempre, musica (senza soluzione di continuità) e apparecchiature hi-fi; i due lati di una ricerca che portiamo avanti ormai da tempo immemore, avendo sempre dato maggior rilevanza alla prima, soprattutto quando possibile ascoltata dal vivo (o comunque in situazioni sociali), ma senza mancare di riconoscere al mondo delle attrezzature, oltre che l’importanza della fedeltà di riproduzione rispetto all’esecuzione originale, una sorta di disciplina: il comprare queste sorgenti e il connetterle tra loro bilanciandone le caratteristiche, atta a nobilitare l’ascolto della musica come uno degli atti più elevati compiuti del genere umano (ovviamente dal nostro punto di vista).

Il Jazz Cafè Chigusa (1933), il più antico Jazz Kissa ancora aperto.

I jazu-kissaten si sono diffusi in Giappone già prima del secondo conflitto mondiale, quando nel Paese del sol levante era nata una sorta di mania per il jazz, ovviamente importato dalla madrepatria. Proseguì la crescita di questo tipo di locali negli anni ’50 e ’60, quando il paese stava vivendo un boom economico e culturale. È ormai accertato che il primissimo Jazz Kissa in Giappone sia stato un locale chiamato “Black Bird” aperto a Tokyo nel 1929. E a seguire il Chigusa a Yokohama, nato nel 1933, che è ancora in attività. Si può presumere che il malinteso per cui questi spazi pubblici abbiano preso l’abbrivio nel dopoguerra sia dovuto al pregiudizio che la cultura giapponese sia stata occidentalizzata dall’occupazione e dal dominio degli Stati Uniti dopo il secondo conflitto mondiale.

L’apertura di un locale di questo genere, aveva uno scopo analogo a quello che avveniva in alcuni dei bar nostrani sempre nello stesso periodo, quando veniva collocata la televisione nella sala, a beneficio di tutta la clientela che non disponeva ancora di quest’apparecchiatura presso la propria abitazione. Anche qui, nei Jazz Kissa degli esordi, l’installazione di un impianto ad alta (altissima talvolta) fedeltà, con l’utilizzo frequente di componenti di importazione inglese e americana dalle dimensioni spesso colossali degli altoparlanti e dei poderosi valvolari, serviva a fornire agli avventori un’esperienza di ascolto impensabile da raggiungere nelle proprie abitazioni private. Questi locali erano spesso frequentati da appassionati di musica jazz e si caratterizzavano per un’atmosfera intima e rilassata. L’arredo veniva viceversa quasi lasciato al caso, vi si trovavano spesso vecchi mobili all’interno, lasciando quasi intendere che il gestore che apriva o prendeva in gestione un locale, lasciasse i mobili come li trovava (anche se una certa aria frugale era pur ben studiata dal profilo dell’estetica e del comfort), occupandosi solo dell’atmosfera musicale da offrire ai clienti e di inserire e successivamente incrementare una collezione di dischi più ampia possibile. Anche le consumazioni erano piuttosto limitate, offrendo molto caffè filtrato, the, sakè e whisky.

In occidente vi è stato un degnissimo omaggio a questi luoghi, salvo l’aver utilizzato un approccio figlio della nostra differente spiritualità alla fine nel creare la nostra versione, i listening bar, e aver dato un taglio a questi locali molto trendy, ma che si pone rispetto all’umiltà e alla semplicità dei Jazz Kissa originari, come a una sorta di franchising dei jazz cafè, con studio dell’arredamento interno e integrazione delle periferiche nell’arredo generale, come solo potrebbe venire in mente a una persona intrisa del nostro evoluto ma al tempo stesso discutibile concetto del bello. Ne parliamo su uno specifico articolo.

Una delle iniziative che ci sono maggiormente piaciute è quella della pubblicazione, a seguito del viaggio di un editore giapponese, tal Katsumasa Kusunose, assieme alla fotografa Irene Yamaguchi; i due hanno compiuto un tour della nazione a caccia delle realtà più gloriose e caratteristiche nel 2014/5, facendo uscire in sequenza tre volumi fotografici che potremmo definire senza timore commoventi e di cui trovate i riferimenti in bibliografia.

Spendiamo adesso due righe sui brand delle attrezzature musicali: a farla da padrona sono i pre-amplificatori e i finali Mc Intosh, mentre i trasduttori preferiti erano e sono Klipsch, Tannoy, Electro Voice, JBL e Altec Lansing. Per le apparecchiature giapponesi spuntano su tutte Onkyo e Technics, quest’ultima di fatto la scelta obbligata per i giradischi utilizzati nei Listening bar (occidente), mentre in Giappone paradossalmente si utilizzano da sempre sorgenti occidentali, su tutte Garrard, Thorens e il non plus ultra, l’EMT. Spiacevolmente, tocca osservare che uno dei marchi più gloriosi del mondo dell’elettronica giapponese, la Vestax, non è ancora entrato ne nei Jazz Kissa (posto che sarebbe difficile, dato che è nato attorno al 1977 per produrre prevalentemente attrezzatura da disk-jockey), ma nemmeno in occidente risulta ancora utilizzato, almeno nei locali più celebri. Confidiamo che prima o poi una Mixstation AA-88 entri di diritto in qualche listening bar trovando un meritato trono tra due piatti a trazione diretta.

Come al solito chiediamo ai nostri lettori di pazientare. Con la stessa dedizione discreta, serena, per quanto possibile disciplinata, come quella dei gestori dei gloriosi jazz kissa, torneremo a integrare questo articolo nei prossimi giorni e mesi, inserendo ulteriori descrizioni, riferimenti a locali leader nel settore, testi e siti in bibliografia e qualche video che possa darvi l’idea dell’atmosfera che si respira in questi locali.

Se aveste domande, sia strettamente sui Jazz Kissa, sia sulle elettroniche che sulla musica qui suonata, non esitate a contattarci, in questa materia siamo senz’altro tra i massimi esperti mondiali (tra i pochi a possedere i reportage di Kusunose in Italia, crediamo)!

Keep in touch!

In chiusura di questo articolo ci sentiamo di fare una dedica alla memoria di un musicista giapponese mancato proprio nei giorni in cui ci accingevamo a prepararlo: Ryūichi Sakamoto. Ponte musicale tra Paese del Sol Levante e occidente cui sicuramente tutti i proprietari e avventori di questi locali in Giappone saranno come noi colti da grande commozione. Musicista che per la sua storia meriterebbe nelle nostre pagine un articolo a se stante, che speriamo di poter stendere nel prossimo futuro.

Bibliografia:

L’articolo internazionale imperdibile sul tema:
https://insheepsclothinghifi.com/tokyo-jazz-kissa/

Il sito giapponese che mappa la presenza sul suolo nipponico dei Jazz Kissa:

https://jazz-kissa.jp

Due saggi del sociologo americano Ray Oldenburg circa l’utilità di ambienti sociali in territorio “neutrale” dove trovarsi tra paesani o abitanti di un certo quartiere in maniera informale, senza darsi appuntamento, costruendo relazioni magari basate su un interesse comune, dal cui titolo del primo volume, evidentemente convinti degli argomenti parecchi gestori, è stato dato il nome “The third Place” a un nutrito numero di locali in occidente:

The third place – Ray Oldenburg

The great good place – Ray Oldenburg

Il sito dove trovare – in giapponese – informazioni sui volumi fotografici sopra citati (fuori catalogo a oggi):

Gateway to jazz Kissa Vol. 1 – Katsumasa Kusunose / Irene Yamaguchi

Gateway to jazz Kissa Vol. 2 – Katsumasa Kusunose / Irene Yamaguchi

Gateway to jazz Kissa Vol. 3 – Katsumasa Kusunose / Irene Yamaguchi

Il sito del progetto Tokyo Jazz Joint, dove al termine di una ricerca di due appassionati europei, Philip Arneil, fotografo e James Catchpole (a.k.a. Mr OK Jazz), scrittore, è stato edito anche un loro libro fotografico grazie a un progetto di fundraising, in vendita in questi mesi, e a quanto pare già alla seconda edizione:

Tokyo Jazz Joints

Infine, poteva mancare un film (nello specifico un documento-film) sui Jazz Kissa?! No, e peraltro anche questo è un prodotto appena uscito, a dimostrare l’interesse attuale su questo argomento e la contemporaneità di questo articolo. Dopo varie ricerche abbiamo constatato l’indisponibilità, a oggi, almeno in Italia, però in rete c’è un video in due parti dell’intervista tra Isashi Tanaka, giornalista audio e il proprietario del locale, Shoji Sugawara sulle testine che quest’ultimo è andato nel tempo sviluppando, che andiamo a pubblicare qui sotto a beneficio dei nostri lettori. Anche questa mezz’ora (in totale tra i due video) di conversazione possiamo dire sia molto indicativa dell’approccio “jazu kissaten”!

[JAZZ Cafe BASIE Shoji Sugawara interview: The BASIE model Part 1] https://youtu.be/23gMvr_3b-E
[JAZZ Cafe BASIE Shoji Sugawara interview: The BASIE model Part 2] https://youtu.be/GRSwbJjm5Ro

Forse dopo tutta questa conversazione qualcuno di voi sarebbe curioso di vedere la testina di cui parlano, eccola, e se volete potete pure (finché sarà disponibile) comprarla su eBay:

Testina Jazz Kissa Basie

Un saluto a chi ci ha seguito fin qui!

Timberland Chukka

In questo tumblelog, dove trovano asilo tutte le cose e le situazioni meno popolari, possiamo introdurre un nuovo elemento che in questo momento il “sistema” non comprende tra le scelte possibili, e il cui valore, un po’ come tutto quello che trattiamo, è inversamente proporzionale ai numeri che genera, parliamo oggi dei polacchini Timberland Chukka, noti anche come Newman 1973.

Tanti sono i modi per denominare i polacchini della Timberland, forse il modello che più di ogni altro ha creato il fenomeno di questo marchio, diventato un simbolo su cui sono stati scritti perfino dei saggi.

 https://www.timberland.it/limited-edition/iconic-80s-boots.html

Poche operazioni di marketing attorno a un brand di calzature hanno avuto un effetto così deflagrante, poche volte accade che un prodotto venga più apprezzato fuori dalla nazione in cui viene prodotto, ma in casi come questo è probabile avvenga in Italia, Paese in cui il concetto di qualità e stile legati ai frutti dell’industria è più sentito che in qualsiasi altra parte del mondo.

Spesso in questi casi è fondamentale l’intuizione e l’opera dell’importatore che sceglie di investire soldi e fatica su un determinato marchio in cui crede lui prima di chiunque altro. Come per il proverbiale caso di Carlo Talamo con Harley Davidson e Triumph, lo stesso è accaduto qui con Giorgio Faccioli, anch’egli essendo riuscito in un incredibile bis con Clarks prima e Timberland poi (stranamente, prodotti che si rivolgono a platee opposte, pur ognuno dei due proponendo dei polacchini/chukka, le Desert Boot l’una, le Newman 1973 l’altra).

La storia stessa della casa produttrice insegna come sia indispensabile, pur producendo prodotti di qualità, passare dall’anonimato a un brand, studiando un logotipo e un naming efficace, che faccia andare in zucca (metafora molto azzeccata per queste calzature) a milioni di persone un prodotto e scateni un desiderio condiviso, non tanto e non solo collegato a un oggetto e alla sua funzionalità ma a un sistema di simboli accuratamente studiato in quell’affascinante materia che è la semiotica, che trova nei suoi massimi esponenti mondiali Roland Barthes, Umberto Eco e Omar Calabrese, presente tra l’altro nel testo che riportiamo in bibliografia e nell’immagine di copertina di questo articolo, in compagnia di sociologi del calibro di Francesco Alberoni, professori come Silvio Brondoni e di giornalisti come Luca Goldoni, Cesare Marchi ed Enzo Biagi, tanto per dire.

Da questi pulpiti altissimi si può calare nel pratico, nella vita di tutti i giorni, nel casual e trovare casi di studio eccellenti come questo marchio e quello che a nostro avviso è il suo prodotto più iconico (anche se sconta in questi ultimi anni uno inspiegabile oblio di cui magari approfondiamo in seguito) tra tre o quattro modelli azzeccati che hanno creato a suo tempo, dagli inizi degli anni ’80 diremmo, la più grande mania attorno a questo capo di abbigliamento che sia mai esistita. Così come i Beatles assieme a Elvis furono i più eclatanti casi di isterismo delle adolescenti attorno ai fenomeni musicali, solo attorno alle Timberland si è creato quel caso mitologico, ma crediamo accaduto realmente alcune volte, della rapina delle calzature accaduta ai danni dei rampolli milanesi.

Segno che l’oggetto, difficile da acquistare per via del suo prezzo allora assai proibitivo e staccato da tutto il resto del mercato, portava alcuni giovani a gesti inconsulti che non accadevano all’epoca manco per icone sempreverdi anche più preziose e facili da trafugare, come ad esempio i Rolex.

Dicevamo tre o quattro modelli: la Timberland si affaccia nel panorama mondiale, ma sopratutto in quello d’origine (l’America) e quello italiano con quattro modelli in particolare:

i “boots” (per gli amici i six inches) in nabuk giallo, quelli più sfacciati, rimasti più o meno sempre in voga negli anni, stranamente divenuti due decenni dopo il loro primo exploit oggetto di culto anche tra i rapper (uno di questi, Timbaland, ne ha anche mediato il suo nome d’arte), le “carroarmato” (o 3-Eye Lug Handsewn), il mocassino a tre occhielli, con suola “carroarmato” appunto, salsicciotto alla base delle caviglie e proposta normalmente in cuoio liscio rossiccio, le boat shoes con la soletta sottile intagliata a zig-zag per catturare l’acqua presente sul ponte della barca o sul molo e creare un interessante effetto antiscivolo e la Chukka appunto, il polacchino in cuoio liscio arancio, con laccio “brown & yellow”, suola massiccia ma tassellatura sottile, normalmente foderato in pelle e contenente un’imbottitura in gommapiuma, ma talvolta proposto con pelo bianco all’interno nella versione più invernale.

Tale calzatura, dall’aspetto di per se abbastanza sobrio, abbinato a una “patina” che andava prendendo il pellame con l’uso, e a tutto il resto dell’abbigliamento studiato per darne un immaginario – dobbiamo dire – piuttosto riuscito, a cui possiamo abbinare gli aggettivi “yankee”, “casual” e “outdoor”, fatto di gilet imbottiti con fronte in cuoio e il restante in nylon (Schott), camicie a quadrettoni (Controvento, Levi’s, etc…), jeans (Levi’s, El Charro, Chambers), e le irrinunciabili calze a rombi (Burlington).

L’immaginario sembra essere quello delle Rocky Mountain americane, o meglio ancora quello dei grandi laghi e degli stati del nord-est, tra cui il New Hampshire, quello in cui viene fondata l’azienda nel 1973, ben descritto in un testo di un fotografo americano, tale Earl Roberge, che aveva tutt’altri intenti, Timber Country, in cui ci siamo imbattuti a causa del nostro interesse per il legno e la sua lavorazione.

In effetti un look come quello summenzionato rimanda a un preciso tipo di libertà e di contatto con la natura, di gran lunga più sano e più felice di quello proposto da altri marchi che rimandano a immaginari metropolitani, più cool e updated a oggi, ma anche più alienanti (vedi Dott. Martens e Palladium), dove, in tanto materiale fotografico ovviamente un tantino edulcorato, si immagina la montagna non matrigna, ma mamma.e culla di giornate spensierate.

Nessun altro brand è riuscito a veicolare con altrettanto successo un immaginario, tralasciando quelli sportivi, Nike e Adidas in testa, che riuscendo ad azzeccare solo uno stile “street” metropolitano, accontentano più che altro gli adolescenti in una fase ristrettissima del loro percorso di crescita, esaurendo rapidamente la desiderabilità di vestirsi e di vivere a quel modo da bivaccatore di periferie, stile di vita che a una persona benestante e consapevole fa molto poca voglia.

Queste calzature, come si accennava all’inizio dell’articolo, scontano a oggi uno strano destino: da oggetto di culto senza precedenti negli anni ’80 per tutti gli aspetti immateriali descritti sopra, ma anche per una qualità fuori dall’ordinario (soprattutto per via della proverbiale e mai venuta meno impermeabilità dei prodotti brand nord-americano, risultante da diverse lavorazioni esclusive e senz’altro piuttosto costose esse stesse), dopo essere state proposte dalla casa-madre un’ultima volta nel 2019, nel tentativo di un rilancio della moda paninara – sottocultura che ha subìto più di ogni altra un riflusso spaventoso e senza ritorno – con una campagna pubblicitaria che abbiamo riportato nel link sopra, senza aver ottenuto troppa eco, sono state totalmente archiviate.

Un destino indegno per un modello oggettivamente perfetto già sotto il profilo formale e caratterizzato da un certo minimalismo che faceva supporre sarebbe potuto venir riciclato anche in contesti diversi, immaginiamolo abbinato a una giacca spinata in tweed, accompagnata da un pantalone in velluto a coste, o come si fa coi berretti da sci, accompagnate a un cappotto più sobrio, una volta abbandonati jeans, piumini e camice in flanella (posto che non è vietato reindossare questi tre ultimi capi, magari non tutti assieme). 

Ma a quanto pare, nel panorama odierno non c’è (o non c’è ancora) posto per questa forma, nè è stata azzeccata una riedizione con un nuovo materiale o almeno una nuova tonalità che potesse, sempre a livello semiotico, abbinarsi meglio al mood odierno. Stranamente non troviamo nemmeno un follower (vedi Docksteps) che si approfitti di questa falla lasciata dal produttore originale, ne nessuno stilista che scimmiotti al rialzo le forme caratterstiche del modello oggetto di questa disamina.

Il modello non è però caduto in un completo oblio: come abbiamo avuto modo di constatare, da vecchi apprezzatori di questa calzatura, c’è una ristretta nicchia di appassionati che tiene insieme un piccolo mercato di compravendite di questa calzatura sui market on-line, e non senza fatica, si riesce a rimediare un paio di questi eterni polacchini, per chi ancora apprezzi l’eleganza casual del capo e la qualità oltre tutta la media di prodotto (il vecchio slogan di Timberland era “More quality than you may ever need”) odierno, di questo e di altri marchi.

Per comprare su VINTED la versione con interno standard.

Per comprare su VINTED la versione con interno in pelo.

Per la cronaca, notizia che non tutti sanno, nemmeno tra i più entusiasti utilizzatori del marchio, Timberland nel 2011 è stata assorbita dalla multinazionale VF Corporation, già proprietaria di “The north face” a altri marchi noti del mondo “outdoor”.

Tra i pochi brand che possiamo porre a paragone della casa dell’alberello per la qualità troviamo prima di tutto Paraboot, che però sforna storicamente il mocassino da città mediato dalla forma tirolese, che in realtà non potrebbe essere indossato agevolmente nei boschi e Tricker’s, ottima calzatura inglese, ancor più aliena da qualsiasi collocazione “country”.

L’unica linea che poteva veramente misurarsi con le Timberland, pur non proponendo modelli di scarponcino alto, era la partnership nostrana tra l’allora classicissimo produttore italiano Divarese e la Sisley, nata come costola della veneta Benetton (che in quel periodo aveva peraltro assorbito il calzaturificio lombardo), e vocata proprio come Timberland, anzi probabilmente prendendo spunto proprio da questa, per un immaginario “outdoor” avventuroso e vòlto alla scoperta dei grandi spazi.

Tale partnership, o meglio l’iniezione dello stile Sisley nel contesto storico del calzaturificio di Varese fu la linea “Hudson Bay”, che richiamando proprio la sagoma del modello Paraboot, creò un mocassino rustico e dalla forte personalità e qualità, che per diversi anni in Italia fu tenuto molto in considerazione e scelto da diversi clienti che avevano il benchmark molto elevato di Timberland come elemento di confronto.

Peccato che anche in questo caso, forse dobbiamo proprio constatare che dopo l’ultima ondata di entusiasmo per il tema, contraddistinta dal film “Cliffhanger” con Sylvester Stallone, la stagione della vita all’aperto, dei boschi e dei grandi laghi, dalla metà degli anni ’90 ha perso definitivamente di appeal presso il grande pubblico, quantomeno rapportata al dialogo con le città. Oggi chi ricerca questo stile di vita e lo declina nell’abbigliamento, quasi esclusivamente in montagna a dir la verità, utilizza l’imbarazzante attrezzatura tecnica che sfigura sia nei corsi del centro cittadino, sia nei sentieri di montagna. Colori improbabili abbinati a materiali che si vuol presentare come “tecnici”, “traspiranti” e perfino “ecologici”, ma che nascondono a nostro avviso solo la cinica speculazione di rifilare al grande pubblico tonnellate di derivati del petrolio riciclati e rilavorati in Cina, che ognuno di noi mette tranquillamente a contatto con la propria pelle, in alternativa a quelli naturali che si usavano solo pochi anni fa, tra cui cuoio, lana (in tutte le sue preziose qualità), cotone, seta, lino, filati e prodotti in Italia o in altri Paesi dell’occidente di grande tradizione manifatturiera.

Unico marchio che si sia affacciato su questo fronte negli ultimi anni, per dovere di cronaca, è l’americana Pendleton (https://pendletonwoolenmills.eu/?gclid=Cj0KCQiArsefBhCbARIsAP98hXT7YZi99WP3uhJUfnyuyzZV-in007phitvtMvN8W78VUoahFQiWmesaAvt6EALw_wcB), brand che prende il nome dall’omonima città dell’Oregon e che propone la curiosa combinazione di raffinate camicie in flanella e articoli per la casa connotati dal mood yankee, oggettivamente piacevolissimi. Forse è la mancanza di sinergia con altri marchi che non permette a quest’ultimo marchio di sfondare come accadde per la prima generazione quarant’anni fa, ma per soggetti che possano scegliere e agire autonomamente, assolutamente consigliato!

Il più probabile prezzo di vendita per dei numeri a maggior diffusione, 42 o 43, intonsi, sia con interno standard, che con sherling/pile (modelli prodotti al più tardi rispettivamente nel 2019 – l’ultimissimo – e 2009 – l’ultimo prima della cessione del marchio a VF Corporation -) possono venire proposti a 200€ cadauno o anche oltre, se la persona che intende mettere in collezione una rarità del genere è disposta a investire una somma più importante.

Bibliografia:

https://www.anobii.com/it/books/timberlandia/9788804307198/01e26e2abd2b1dfcde

https://www.goodreads.com/en/book/show/313548.Timber_Country

https://www.anobii.com/it/books/trattato-di-semiotica-generale/9788893440059/01297fdbe29d8acfe5

https://www.anobii.com/it/books/il-senso-della-moda/9788806181772/013d60b83d362c3833

Vite difficili

Questa sera, a breve distanza da un evento che definirò “epocale”, volendo dargli una connotazione positiva, ma in realtà uno dei momenti più duri e difficili della mia vita, voglio condividere qualche pezzo della mia biografia e ritengo che questo sia il posto adattissimo! Non sono qui con scopi narcisistici di grandi volumi di lettori, non chiedo pareri entusiasti di nessuna specie, anzi sono consapevole che vado a scrivere qualcosa di amaro e senza lieto fine, ma mi piace pensare che dentro a questo tumblelog qualcuno, grazie a qualche parola chiave o forse grazie a qualche aspetto ancor più legato alla sola serendipità, potrà trovare una vicinanza di dolori e un momento di empatia letteraria, buona a farlo sentire meno solo.

Sto per raccontare un po’ della mia vita familiare passata decenni in compagnia di una sorella maggiore (abbastanza regolare, almeno lei, anche su ultimamente un filo smartphone-dipendente) e a due genitori, buoni (buoni veramente?!) ma fortemente colpiti da malattie psichiche mai del tutto diagnosticate, giustificate e curate.

Non essendo uno psicoterapeuta ne tantomeno uno psichiatra, non potrò descriverle scientificamente ne dargli il giusto nome, anche se in parte, durante i tardi sviluppi della nostra storia familiare, mia madre è passata sotto l’osservazione di uno psichiatra.

Mio padre è scampato a questo supplizio, gente degli anni ’30 dello scorso secolo i miei, generazioni per cui andare sotto la lente di uno specialista della materia era già un’onta in se, e credo rimandasse a paure antiche, degli anni pre-legge Basaglia, in cui magari una volta trovata anche solo una traccia di un semplice “esaurimento nervoso” (così chiamavano all’epoca la depressione), rischiavi di finire chiuso dentro a un “manicomio” (antiche strutture di “cura” psichiatrica).

Perciò non saprò mai quale fattore o malattia avesse originato quella stranissima, odiosa abitudine (anzi, patologia, probabilmente una forma di schizofrenia) di parlare continuamente da solo in maniera rabbiosa contro vari nemici ipotetici, tra cui mia madre, e altri conoscenti, in cui evidentemente vedeva tutte persone pronte ad attaccarlo. Ho anche fatto qualche ricerca in rete, ma stranamente questo problema non trova uno straccio di definizione nel mezzo in cui siamo ormai abituati a trovare risposte a qualsiasi domanda.

Non so se sia immaginabile per chi non abbia avuto un caso del genere tra i parenti, la vergogna che si prova da bambini mentre si è costretti a presentarsi in quasi tutte le occasioni in compagnia di una persona che da spettacolo in questo modo pietoso. Inoltre, credo sia altrettanto inimmaginabile la pena che si prova allo stesso tempo per una persona, sante del tuo sangue, che sta soffrendo di una situazione del genere pur essendo in tantissime cose un uomo validissimo: ho il vago ricordo di avergli provato a parlare disperato di questa cosa, ma ricordo le risposte evasive e piuttosto rabbiose che mi venivano date quando tentavo di trattare il problema.

Mia mamma invece aveva altri problemi, forse ancora più subdoli: al di là di essere completamente incapace di gestire le sue sostanze, credo mentalmente pressata anche lei dall’essere persuasa di non essere all’altezza del suo patrimonio, dava poi sfogo ad elementi educativi mal assimilati (e forse mal insegnati) per cui ad esempio stipava qualunque cosa avesse in passato acquistato, più anche oggetti di altra provenienza dentro casa, probabilmente persuasa che le sue poche capacità e attitudini l’avrebbero probabilmente resa bisognosa in futuro di attingere da queste “scorte” messe da parte nel tempo. Di questa malattia ho trovato il nome in rete: viene definita disposofobia (letteralmente “paura di disfarsi delle cose”).

Ma la lista delle problematiche e delle cose in cui si rendeva debole e ridicola agli occhi degli altri è ancora molto lunga, per descrivere tutto credo dovrò tornare all’articolo più volte e completarlo man mano che mi vengono in mente le tante défaillance occorse a mia madre negli anni.

Possiamo introdurre qui, per poi proseguire più agevolmente, le patologie trovate dallo psichiatra, quando in occasione del tentativo da parte di noi figli di interdirla dal compiere ulteriori danni al proprio patrimonio oltre a quelli già compiuti in passato, siamo riusciti dopo tanti anni in cui, pur – ripeto – non essendo dei professionisti in materia, un po’ di intelligenza, di intuito e di cultura ci ha permesso di sospettare che quelle di nostra madre non fossero soltanto cattive abitudini, ma vere e proprie problematiche psichiche da trattare terapeuticamente.

Il dottore che l’ha visitata per la prima volta da questo punto di vista qualche hanno fa ha diagnosticato dei “deliri paranoidei” e delle “turbe ideative”, oltre a l’incorrere a quel punto della sua vita dell’inizio di una più ricorrente demenza senile.

Uno dei punti che voglio mettere alla luce, è che persone di questo tipo, non così rare in società, se non vengono costrette in qualche modo ad essere visitate, possono rimanere inserite all’interno delle proprie famiglie in qualità di “capi” di un nucleo familiare, con la possibilità tutt’altro che rara di influenzare negativamente il/la partner e ancor peggio i figli nel loro sviluppo personale, nonché nelle molteplici attività della vita, dalla crescita allo studio, dalla formazione della personalità e della propria immagine nella società.

Siamo arrivati all’opposto dell’era pre-legge Basaglia, per cui allora si attribuiva l’onta della follia con una certa disinvoltura e si passava altrettanto rapidamente a cure particolarmente drastiche. Si dice che una volta capitasse anche solo a semplice delazione che un individuo venisse recluso in manicomio e magari gli venissero praticate “terapie” come l’elettroshock con una certa facilità, ma dalla legge Basaglia appunto, in Italia c’è una sorta di difesa dell’individuo, per cui se il singolo non decide di dichiarare la propria difficoltà, gli altri di fatto non possono intervenire, salvo che il soggetto non sia un minore e a interessarsi non siano i genitori. Come la prima situazione era dannosa, a mio livello anche il suo attuale opposto crea dei danni incommensurabili alla società, con persone affette da patologie, libere di danneggiare se e il prossimo in svariate maniere, che qui sarebbe impossibile esemplificare.

Al termine di questo resoconto, non ho grandi consigli da dispensare, io stesso non so come ho fatto a rendermi immune da questi problemi dei miei genitori, ne se lo sia effettivamente del tutto. Uno dei più grandi aiuti me l’hanno dato loro, in particolare mio padre, facendomi prendere passione per lo studio. Forse era consapevole che una parte dei suoi problemi e di quelli di mia mamma, derivavano da un deficit educativo maturato all’interno di famiglie povere che non li avevano fatti studiare, anche se a dire il vero tutta quella generazione cresciuta nelle periferie non aveva avuto mediamente a quanto ne so accesso allo studio, senza che tutti i coetanei dei miei abbiano sviluppato questi spaventosi limiti al proprio sviluppo che hanno subito i miei. Cosa li abbia schiacciati in particolare è un mistero che cercherò di risolvere negli anni, se i parenti riusciranno a darmi una mano, ma che credo rimarrà almeno parzialmente irrisolto.

Cosa che mi provoca un grande dispiacere, perchè dietro a questa massa di problemi e di dolore, c’erano due persone valide, forse accomunate dall’essere di base intelligenti e fin troppo sensibili, schiacciati probabilmente dalla mancanza di opportunità di sviluppare il loro potenziale.

L’alchimista tropicale Jorge Ben

Un disco tra i più importanti della mia collezione, e visto che non ci ho mai scritto su nulla, mi pare il minimo condividere questo di “Turrefazioni”!

turrefazioni

Certi dischi entrano nella vita come le persone delle quali ti innamori: un caso colto al volo, l’irrazionale e irripetibile colpo di fulmine, la conoscenza comune che funge da tramite. Se parliamo di musica brasiliana, per me vale la terza opzione e anche qui ringrazio David Byrne. Comperata per cinquemila lire nei primi ‘90, la compilation Brazil Classics 1: Beleza Tropical (numero uno del catalogo Luaka Bop, tramite il quale l’ex Testa Parlante propone cose buone dal mondo) fu la pietra filosofale che mutò in oro quanto, stupidamente, associavo a oleografia. Nei miei venti-e-qualcosa fu una benedizione capire che dietro le cartoline c’erano autentiche meraviglie, e in tal senso Beleza Tropical parlò subito chiaro con il funk carioca Ponta De Lança Africano (Umbabarauma) e un’ipnosi che si impadronì di gambe e stomaco disegnando un’epifania coloratissima.

E multiforme è la carriera del suo artefice, Jorge Duilio Lima Menezes in arte Jorge…

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Westworld – Il mondo dei robot

Quello di cui andiamo a parlare oggi non è propriamente un film sulla cresta dell’onda, anzi, se non fosse stata per una di quelle coincidenze con cui spesso e volentieri qui a “Total Rekall” facciamo un approfondimento (a breve spiegherò cos’ha a che fare la pellicola anche con il nome del sito), non sarebbe bastato il passaggio nei vari canali televisivi a permetterci di vederlo, dal momento che in TV da anni questo film latita.

Definita da qualcuno una “pellicola di serie B” (avercene di b-movies diretti da Michael Crichton), una prova “minore” di Yul Brynner, ha sì qualche aspetto da film a basso costo, una certa sbrigatività con cui si sviluppa la storia in particolare, qualche dialogo imbarazzante tra gli scienziati, i set, col pretesto di essere in villaggi-divertimento, sono inequivocabilente all’interno degli Studios di Hollywood.

Però appena parte lo sviluppo degli eventi, e in forma ancora maggiore mentre si sviluppa, si ha la netta sensazione di avere a che fare col “papà” di tutti i successivi successi sci-fi degli anni ’80!

La trama è molto semplice: una coppia di amici, impersonata da James Brolin (padre del più noto Josh) e Richard Benjamin, parte alla volta di un viaggio “artificiale” all’interno di tre mondi possibili, organizzati da una società denominata “Delos”, dal nome dell’isola greca di Delo. Questi tre mondi possibili sono l’antica Roma, dedicata più a clienti che cercano esperienze edonistiche, il medioevo, per chi ama più aspetti di costume e cavallereschi e il west del 1880, per chi è alla ricerca di una vacanza più avventurosa a base di duelli a colpi di pistola, come i due protagonisti.

Già alla partenza del viaggio, in un futuribile overcraft che porta i turisti in mezzo al deserto americano dove si trovano queste tre realtà, si ha l’impressione che questa idea abbia potuto ispirare persino “Un tranquillo week-end di paura” (Deliverance il titolo originale), e “Atto di forza” (Total Recall), dove nel primo caso l’esperienza distopica, la ricerca di un ritorno al contatto con la natura avviene nella realtà di un’enclave “redneck” americana, mentre con la seconda pellicola menzionata scomodiamo addirittura Philip K. Dick, il maestro della letteratura distopica dove i replicanti si rivoltano contro l’uomo.

Durante lo svolgimento del film, mentre tutto il gruppo di turisti si diverte parecchio e beneficia del fatto di poter approfittare dell’accondiscendenza delle macchine, che devono farsi uccidere o sedurre dai danarosi che hanno potuto accedere a questo servizio piuttosto esclusivo succede qualcosa: che le macchine, riprogrammate da altre macchine iniziano a cambiare comportamento e ad attuare una condivisa violenza rivolta contro l’uomo, che fino ad allora nel cinema era stata considerata solo da Kubrick in “2001, Odissea nello spazio”, quando il computer Hal si rivolta contro il protagonista.

Devo dire di essere arrivato a questo film, come accenavo all’inizio di questo articolo, solo per il fatto di aver scoperto che esistesse una pellicola dallo stesso nome del gruppo inglese che ha prodotto il mitico pezzo “Dreamworld“, perla delle selezioni di Leo Mas alla discoteca Movida di Jesolo. Notando che essa era precedente alla formazione, ho pensato che necessariamente avesse dovuto ispirarne il nome (in effetti l’esperienza straniante che avviene nel film è normale abbia suggestionato i produttori che stavano cercando coi loro pezzi di favorire lo straniamento dei punter nella pista da ballo nel decennio successivo).

Altra coincidenza piuttosto singolare è che sono arrivato a scoprire questo film proprio mentre terminavo un corso con l’MIT di Boston in cui venivano spiegate le opportunità e le problematiche dell’intelligenza artificiale e se ne dibattevano le possibili insidie; pensare a questo punto che ci fossero già dei pensatori come Crichton, come Dick e altri autori ancora precedenti che riflettevano su questi temi cinquant’anni or sono o ancora precedentemente fa sempre rilettere come una ristretta intellighenzia in grado di attingere a certi dati e a soppesarli con lustri di anticipo sulla gente comune.

Se dovessimo fare dei riferimenti a film più recenti, possiamo dire che ce ne sia più di uno che trae certamente ispiraizione da questo, dimostrandone il valore assoluto a discapito di quanto asseriscano i detrattori. Possiamo citare certamente Terminator, per la tematica molto simile (il cyborg a caccia di umani), Predator per certe scene (in quel caso l’extraterrestre ha un sistema di visione mandato in crisi dal camuffamento dell’umano), e appunto come dicevamo, la trama di Atto di Forza è molto similare, con gli umani che vanno alla Rekall a fare viaggi questa volta nel futuro e in altri universi, anzichè negli ambiti storici terrestri proposti dalla Delos.

Rassegna musica nel cinema 2020

Per celebrare la gioia delle sere d’estate, messa a dura prova dai divieti relativi al nuovo Coronavirus, abbiamo approntato un calendario di film e documentari legati in qualche modo, più o meno diretto, al mondo della musica e della notte.

Per variare le esperienze che verrano godute nelle sei serate, abbiamo scelto di prendere la questione da diverse prospettive, dal documentario che prende molto sul serio la questione, alla commedia surreale che scherza con le esperienze notturne new-yorkesi, precorrendo l’era degli after-hours in Italia ed Europa.

Trovate titoli di registi misconosciuti accanto a quelli di maestri della settima arte, lungometraggi recenti a fianco di opere ormai più che trentennali, insomma, senza pretesa alcuna di essere esaustivi, abbiamo messo insieme una rassegna che dovrebbe assicurare il divertimento.

Qui di seguito la “locandina” dell’evento, che si svolgerà in località segreta, che sarà comunicata ai soli che ne faranno richiesta.

Fateci sapere se la proposta vi attizza:

Calendario cinematografico 2020

Per ulteriori dettagli consultate le altre sezioni di questo tumblelog alla voce “cinema” e “musica“.

La Warp Records, il bleep ‘n’ bass e l’IDM

Quello che è accaduto nell’ultimo trentennio in tema di musica elettronica, rivolta prettamente al dancefloor o pensata per ascolti di fronte al proprio hi-fi o alla propria consolle, è certamente dato dall’interazione di innumerevoli soggetti, facenti parte di più scene, ma se dobbiamo citare un protagonista in particolare, più che a un musicista a mio avviso dobbiamo rivolgerci a un’etichetta musicale, la WARP!

Tricky Disco

Etichetta di cui venni a conoscenza nei primi anni ’90 grazie al sound della Magica Triade al Movida di Jesolo, associata alle uscite di gruppi di culto nell’ambito dance, tanto per fare qualche esempio cito qui di seguito le tracce “LFO”, “Tricky Disco” e “Testone”, non è stata la prima ad aver seguito nel mondo le evoluzioni del genere, Transmat e Trax e più ancora la Mute sono progetti specifici dell’ambito elettronico partiti prima, inoltre le grandi etichette generaliste come la EMI erano le stesse che pubblicavano fino ad allora anche i musicisti elettronici, come Jean Michelle Jarre, Brian Eno o i Kraftwerk; ma è stata la capacità di quella che era partita per un breve periodo come “Warped”, salvo poi semplificare il nome come tutti sanno per le complicazioni che all’epoca si presentavano nel pronunciare quella parola al telefono, a dare una cornice coerente, sia dal punto di vista degli artisti selezionati per il proprio roster, sia da quello dell’immagine grafica fatta di scelte cromatiche (vedi le ormai celebri copertine ed etichette apposte sui vinili dal caratteristico color malva) e di minuziose note a margine dei dischi, che portarono l’elettronica, da universo di secondo piano com’era visto dagli appassionati di musica fino ad allora, all’immagine che ne abbiamo oggi, della forma musicale che connota in modo principale la scena odierna, una volta che gli ultimi baluardi del rock, la scena grunge, sono ormai cosa di tanti decenni fa, e i tentativi di rifare il verso “enne” volte a un’ideale scena rock del passato, vedi tanto per fare qualche esempio lampante gli Strokes, gli Interpol, i White Stripes o i Franz Ferdinand, non hanno troppo convinto fino ai loro inizi. Al contrario, la musica che prevede la preponderanza di suoni elettronici, è ormai come sostiene DJ Rupture nel suo ultimo saggio “Remixing” La musica rock dell’epoca attuale, per di più un po’ in tutto il mondo, dal momento che anche nel più disperso villaggio africano un ragazzo può produrre una track al cellulare con Fruityloops.

A tale constatazione era giunto trenta anni fa Gianluca Lerici, conosciuto come Prof. Bad Trip, che nell’intervisto che ho pubblicato nell’articolo a lui dedicato, sostiene, peraltro dopo una militanza attiva in diverse formazioni punk, che dopo aver sentito le prime tracce techno e acid non riusciva più ad ascoltare la musica fatta con strumenti a corde, a fiato o a percussione, che gli suonavano – è proprio il caso di dire – desueti. Percorso analogo lo aveva fatto Leo Mas negli stessi anni, essendo stato anch’egli membro di una formazione punk, dopo aver sentito Acid Trax dei Phuture (la formazione originaria ove militava a metà anni ’80 DJ Pierre) disse che aveva avuto la netta sensazione di sentire qualcosa altrettanto dirompente del punk!

Proprio la Warp ha dato un’immagine di credibilità al genere, e a oggi i principali artisti della sua scuderia sono ormai considerati dei musicisti di riferimento a fianco di quelli più tradizionali anche all’interno delle recensioni delle principali riviste di settore, da Blow-Up, in cui le gesta di Autechre e Aphex Twin sono state seguite con attenzione fin dagli esordi, a Ondarock, passando poi per gli odierni riferimenti on-line specifici della scena elettronica (ormai il fenomeno è ribaltato: questo è il genere principale, e chi utilizza vecchi strumenti meccanici come chitarre, bassi e batterie è divenuto soggetto di nicchia nel panorama musicale odierno), da Factmag a Parkett Channel, da Pitchfork a Rockol. Solo il vecchio portale di Piero Scaruffi (all’epoca dei suoi sei volumi sulla storia del rock il mio riferimento) non ha dato la giusta rilevanza al fenomeno.

Tornando alle origini dell’etichetta, essa è stata fondata nel lontano 1989 a Sheffield, città degli Human League e dei Cabaret Voltaire, da Robert Gordon, Steve Beckett e Rob Mitchell, tre ventenni della città che approfittarono dell’ “Enterprise Allowance”, una norma introdotta dal governo Tatcher che prevedeva un contributo per i disoccupati che avessero aperto un’attività.

Il primo lavoro a carico di quest’etichetta è l’ormai celebre “Track with no name” dei Forgemasters (nome catalogo: Wap1), di cui Gordon stesso era membro, seguono una serie di hit di quello che non sappiamo se e come fosse stato definito allora, ma negli anni a venire verrà prima riscoperto da Simon Reynolds nel suo “Generation ecstasy” / “Energy Flash” a fine anni ’90 e successivamente da altri giornalisti musicali fino a Matt Anniss con la sua doppia opera libro/compilation “Join the future” del 2020 e denominato “Bleep and Bass”.

Questo movimento fu la risposta inglese ai generi elettronici da ballo americani, la house music, l’acid house e la techno di Detroit, a cui gli inglesi risposero con questi “bleep” sopra alla cassa che andavano a mimare scenari elettronici futuristici, come segnali dallo spazio o da remoti calcolatori intenti ad elaborare frequenze audio da inviare a destinazioni misteriose. La suggestione che ebbero allora questi pezzi fu notevole, la ricordo bene mentre da adolescenti la scoprivamo nei principali club di musica elettronica del nord-Italia.

I nomi principali di queste uscite sono ormai leggendari per chi ama questa scena, da Tuff Little Unit a Sweet Exorcist, da Tricky Disco a Black Dog (poi divenuti Plaid) passando per Nightmare on Wax – che pur facendo parte del roster di WARP fin dal principio aveva però uno stile differente tanto da non potersi ascrivere direttamente all’universo bleep – e Unique 3 che mi sento di dover annoverare in questa retrospettiva anche se non pubblicava con WARP, ma di cui la track “The Theme” è universalmente riconosciuta come il primo pezzo Bleep & Bass della storia.

Black Dog – Virtual versione originale

Il primo gruppo a sfondare nelle classifiche furono però gli LFO, prima col singolo omonimo, tra quelli con la ormai celebre copertina lilla, poi con LP “Frequencies”, pietra miliare del genere, di cui come per i Pink Floyd con “The Dark Side of the Moon” e per i Cabaret Voltaire con “Groovy, Laidback and Nasty” (quest’ultimo coevo dell’epoca WARP), possiedo sia vinile che CD.

Senza stare lì a riportare l’intero catalogo, possiamo dire che attraverso la pubblicazione della serie “Artificial Intelligence” la WARP vira nella direzione che l’avrebbe resa grande, quella di lasciare in secondo piano il dancefloor per introdurre quella corrente che sarebbe divenuta famosa come “IDM”, ovvero “Intelligent dance music”, quintessenza dello stile WARP. Tracce dove la cassa è meno o per nulla presente, la forma di stampa che viene presa è l’album in luogo del semplice 12″ e lo stile sta tra il chill-out e la Detroit Techno.

A caratterizzare questa seconda fase sono artisti già citati più i Boards of Canada, altra punta di diamante dell’etichetta, Luke Vibert, Squarepusher, Yves Tumor, Vincent Gallo, Flying Lotus, Mark Pritchard, Oneohtrix Point Never tra i principali.

La WARP si è occupata anche di produzioni video, testimone di questo filone il DVD :

Warp Vision: The Videos 1989-2004

Per concludere questa prima pubblicazione dell’articolo, che andrà in seguito integrato con recensioni e varie, allego l’articolo di Simon Reynolds su Fact Magazine ove il giornalista inglese traccia la lista delle principali track del genere Bleep ‘n’ Bass:

The 20 best bleep records ever made

e a seguire, prima della bibliografia, il link all’evento WXAXRXP in collaborazione con NTS Radio, dove lo scorso 19 giugno 2019 sono stati festeggiati i trent’anni dell’etichetta con 100 ore di musica, selezionando session dei principali artisti della label:

WXAXRXP on NTS Radio

Bibliografia:

Energy Flash – Simon Reynolds – Arcana Editrice

Join the Future – Matt Anniss – Velocity Press

Warp Labels Unlimited – Rob Young – Black Dog Publishing

Il numero di gennaio 2020 di Mixmag che celebra il trentennale della WARP

La puntata di Battiti di Rai Radio 3 su Ex-Machina di Valerio Mattioli

Il sito ufficiale dell’etichetta inglese

Discografia:

partiamo col proporre le tre antologie, pubblicate a ogni decennio compiuto dall’etichetta inglese:

WARP 10+

WARP 20

WXAXRXP

Per ultimo, se voleste immediatamente acquistare qualcuno dei dischi che abbiamo citato in questo articolo, di seguito riporto il sito Bleep.com, l’e-commerce ufficiale della WARP Records.

L’ascesa dell’house-music nella Riviera romagnola

Era naturale, dopo aver raccontato la nascita del fenomeno House-Techno a Ibiza e nel nord-est italiano, pubblicare un articolo sui prodromi di questa avventura e menzionare i locali di riferimento anche su un’altra area importantissima a livello europeo per la cultura del clubbing che ha generato e anche per la la dimensione del fenomeno: la Riviera romagnola.

La celebre serie di indicazioni per i locali di Riccione

Oltre a questo, è la zona tra le tre che ho maggiormente frequentato negli anni ’90, complice la scelta in quel periodo di risiedere a Bologna, perciò è una situazione che ho conosciuto in profondità.

L’equivalente dell’accoppiata Movida/Ranch qua in Emilia fu l’Ethos-Mama Club/Diabolik’a, locali fondati da Gianluca Tantini in collaborazione con Maurizio Monti, delle pettegoliere (Sabrina Bertaccini e Mara Conti) per le relazioni pubbliche, e di Flavio Vecchi e Ricky Montanari per il sound. Questi due furono i locali ove vi fu la netta cesura tra un sound piuttosto condiviso in tutte le discoteche italiane dell’epoca (sembra incredibile oggi, ma fino ad allora si ballava Den Arrow e Spagna, qualche reminiscenza del Cosmic sound arrivata in tutte le periferie, Tracy Spencer e Jimmy Sommerville, Depeche Mode persino i Pink Floyd con The Wall, canzonette come Da-Da-Da dei Trio, Sunshine reggae dei Laid Back e amenità come queste).

Quindi immaginiamo i nuovi DJ portarci fuori non senza difficoltà da un suono senza alcuna pretesa di innovazione e di ricercatezza a uno che rimbalzava in Italia coi modi che abbiamo raccontato in altri articoli e che Flavio Vecchi ci racconta in questa preziosa intervista, ovvero andando in esplorazione a Londra (lui ma anche Cirillo e Ricky Montanari, come anche Ralf a New York) come un moderno trappeur e portando a casa il sound più innovativo proveniente dalle due sponde dell’atlantico.

Sarebbe ingiusto stabilire una graduatoria di chi abbia aperto prima, se in Veneto o in riviera romagnola, in quanto se a Jesolo si esordì al mare da metà ’89, è pur vero che i party con la stessa formula erano già stati lanciati tempo prima al Macrillo a Gallio, mentre per quanto riguarda la situazione emiliana, prima che partissero i locali sopra citati, era già da tempo che Vecchi proponeva un certo stile già al Kinki a Bologna, rimasto per anni il riferimento per la musica di ricerca e l’atmosfera “di tendenza” in città, durante la stagione invernale. Quello che possiamo dire, è che ognuna di queste due costiere ci è arrivata indipendentemente e con una propria storia.

Qui l’intervista a Flavio Vecchi pubblicata pochi giorni fa:

La differenza tra le due regioni in generale, da quello che ho esperito personalmente è ancor più profonda di questa piccola disputa su chi abbia lanciato in Italia la tendenza e attiene a un carattere generale differente, probabilmente per profonde ragioni storiche. Il Veneto è piuttosto dicotomico, nonostante abbia avuto il dominio della Serenissima, piuttosto liberale quando non libertino, per secoli, con ogni probabilità dopo l’Unità è stato soggiogato dal Vaticano avendo attecchito particolarmente bene un fenomeno definito “cattolicesimo intransigente”, e nel dopoguerra divenendo grande serbatoio per la D.C. In compenso chi si chiamava fuori dal contesto erano personaggi veramente trasgressivi, uno su tutti l’art director del Macrillo, Vasco Rigoni. In Emilia-romagna invece è storica l’opposizione al Vaticano, da molto prima dell’avvento del socialismo, e qui il fenomeno del divertimento notturno ha trovato un tessuto molto più fertile, con un territorio già da decenni predisposto; si pensi a Tantini, già da prima dell’era house coinvolto nel mondo musicale come organizzatore di concerti, ma si pensi soprattutto alla scena musicale bolognese, con Dalla, Guccini, Rossi, gli Stadio, Cremonini, Carboni, Neffa…

In effetti la mia esperienza personale mi ricorda Jesolo come patria di discoteche fantastiche, ma scenari un po’ “post-atomici”, con gente che prendeva le 12 ore come una rivisitazione delle atmosfere dei film “I guerrieri della notte” e “1997, Fuga da New York”, molto impostata e un filino snob nei confronti di chi aveva gusti più popolari (non ignari di star esercitando un atteggiamento trasgressivo rispetto alle prerogative del territorio); l’Emilia Romagna invece presentava un popolo di punter nostrani molto più rilassati (polleggiati si sarebbe detto da quelle parti), quasi ci fosse una consapevolezza che la vita notturna che stavano facendo era in fin dei conti nient’altro che l’evoluzione nel solco della propria tradizione popolare. Basta vedere in successione questi documenti di due epoche successive per capire come la “tendenza” in Romagna fosse la prosecuzione del dancing/discoteca tradizionale e ancor prima della balera, o come ci ricorda Casadei, dell’aia contadina:

Al riguardo si narra che la decisione di aprire un after-hour da parte della ballotta dell’Ethos fosse dovuta al fatto che abitualmente Monti e combriccola erano soliti tirare mattina dopo la nottata in discoteca in vari locali (tradizione mantenuta gli anni a venire, con grande afflusso di gente al Lucky Corner dopo la serata in disco e prima dell’after), ma evidentemente insoddisfatti dell’offerta, decisero di aprire loro un altro locale dove ritrovarsi con chi voleva fare più tardi, ma forse più tra cappucci e cornetti che non tanto in pista.

Per chi volesse vedere com’era il Vae Victis, una perla dalle teche RAI

Oltretutto, da questo punto di vista, sempre parlando dei due locali pionieri, Ethos Vs Movida, va detto che nonostante fossero grosso modo gli stessi i successi dell’epoca, Tricky Disco, Pacific State, Your Love, French Kiss, A Path, etc, le scalette erano declinate in modo notevolmente differente nei due club: l’Ethos con un sound più morbido e rilassato (con molto più cantato), caratteristica che con l’eccezione della piramide del Cocco sarebbe rimasta negli anni a venire; il Movida aveva un sound più duro (con molto più dub), pilotato dalle contaminazioni anarco-punk EBM/death-rock/Industrial di Leo Mas, che perfettamente allineato al carattere della clientela jesolana, abbiamo detto più rigido e molto meno gay-friendly, sarebbe rimasto cifra stilistica negli anni successivi, col Musikò, l’Asylum di Moka DJ (locale gabber), la successiva gestione Aida delle Capannine con Marco Bellini in consolle (“allievo” della Triade) e l’Exess.

Locali necessariamente da menzionare in una storia notturna della riviera romagnola sono oltre a quelli già citati: Cocoricò, Peter Pan, l’Echoes (nato dalla necessità di trasferire la situazione dalle Marche alla più libertaria Romagna, a causa degli stessi problemi avuti col Movida nel Veneto, di far accettare alla popolazione più adulta e all’amministrazione questo nuovo fenomeno), l’Ecu, il Classic Club – che ha avuto un po’ lo stesso destino del Kinki, prima locale gay, poi afterhour -, il Cellophane, il Byblos, il Pasha e gli after, il Diabolik’a (poi Vae Victis e successivamente Echoes) e Il Club dei 99 a Gradara.

In Emilia-Romagna i protagonisti erano altri rispetto ai DJ superstar del Veneto e vi fu poco scambio, salvo una residenza di Andrea Gemolotto al Cocoricò nei primi anni ’90, il tentativo messo in atto (con discreto successo tra l’altro) di chiamare un breve periodo Flavio Vecchi al Movida nel ’91 e successivamente come resident dj Massimino Lippoli, Angelino Albanese, Pier Del Vega e Stefano Noferini, di stanza normalmente in Romagna, al Musiko e al Gilda di Jesolo nelle stagioni ’92/93. Anche Leo Mas finì una stagione al Pascià la domenica sera, per il resto, in quello che a un certo punto venne definito il “divertimentificio” i big sono sempre rimasti Ralf, saldamente al comando del Titilla per circa vent’anni, Vecchi e Montanari, Ricci, i Pasta boys (Rame, Uovo, Dino Angioletti) e Ivan Iacobucci oltre al già citato Massimino.

Tanto per completare sommariamente il quadro, fuori da qui ci furono sporadicamente altri locali, nei dintorni di Ferrara Il gatto e la volpe, Il Mazoom di Sirmione, L’Alter Ego a Verona, La scala e il Kink Light a Padova e il Go! Bang a Fossalta di Portogruaro, il Kinki a Bologna, il Plastic a Milano e più tardi il Flash ad Aquileia. In centro Italia una certa importanza la ebbero il Red Zone, il Fitzcarraldo, Il Devotion (sì, il nome è preso dal pezzo dei Ten City dell’album Foundation).

Andava fatta questa “mappa” per rendere chiara l’area in cui si sviluppava il fenomeno nella penisola italiana, con un’appendice se vogliamo a Ibiza, in particolare coi locali Pacha, Amnesia, Ku (in seguito Privilege) e lo Space after hour.

Come di consueto, per coloro che arrivano alla fine degli articoli c’è il premio, in questa occasione la segnalazione di un canale Youtube del celebre New York Bar! Non si capisce se il nickname “Fabjazzlive” si riferisca a Fabio S, art director del primo after-tea d’Italia, un successo partito nell’autunno ’95 sui colli bolognesi al Vertigo, con Ivan Jacobucci in consolle supportato da Marco Spinelli, in cui confluivano tutto il pubblico e tutti i pr delle altre situazioni del sabato sera emiliano e oltre; locale in cui si ricreò, forse per l’ultima volta, quel clima particolare in cui chi c’è, sente di trovarsi all’interno di un momento magico, un po’ come all’epoca il Movida e l’Ethos. Qui è durato il tempo di una stagione: il successivo trasferimento estivo al Pascià di Riccione non è stato memorabile, mentre la successiva stagione invernale al Ruvido è stata purtroppo proprio fallimentare. L’estate successiva a La Villa Delle Rose, sempre in riviera romagnola nemmeno, poi so solo che il brand “New York Bar” è stato trasferito a Milano per qualche stagione, indice dell’hype raggiunto in tutto il nord-Italia, ma da allora in poi non l’ho più seguito personalmente. In questa pagina Youtube ci sono molti filmati della prima stagione, tra cui oltre alle pregevoli ospitate di Barbara Tucker e Ce Ce Rogers (ricordo come fosse ora la sua versione di “Promise Land”) si vede, in quello che pubblico, uno spezzone della chiusura della prima stagione, oltre a Ettore del Docshow in apertura (allora p.r. proprio all’after-tea), una delle scene più memorabili: in quella serata, caratterizzata da un’eccitazione palpabile, due donne che ballavano sui cubi davanti alla consolle, esibivano continuamente il seno, costringendo Fabio S ad andare di persona a ricoprirle, tra le risate generali. Uno dei tanti indici dell’atmosfera confidenziale che si era creata in quella stagione irripetibile tra le mura del Vertigo:

Bibliografia:

An history of Cocoricò (Riccione) in English

Infine, il docufilm a firma di Luca Santarelli che dovrebbe dare il definitivo racconto di quest’epopea: